Sulla bio di Instagram di Achille Lauro c’è una descrizione illuminante. Riporto: «Reginetta del Punk, Re del Rock, Stella del Pop». Il senso, probabilmente più di quanto lui stesso lasci intendere, è che l’artista romano negli ultimi mesi è diventato molte cose contemporaneamente: l’esteta attento allo stile che cambia look ogni mese, dandy di borgata rigorosamente gender fluid; l’ormai ex rapper svezzato nel mito di un certo classic rock, che pensando a Las Vegas si è preso le radio; il provocatore puro, quello che si spoglia sul palco dell’Ariston un po’ per il gusto di far discutere e un po’ nell’ambito di una performance che trascende il semplice aspetto musicale. In ogni caso, a oggi è un trasformista che non sta fermo un attimo, e che cambia stile e riferimenti nell’arco di un paio di settimane. Tant’è che il suo ultimo singolo, quel Bam Bam Twist che è uscito oggi, è – come da titolo – un twist. Così, per dire.
Sorpresa, no? Perché ok il gusto vintage e l’America, che dal 2019 ha reso una sorta di credo (non solo estetico), ma lui stesso ha definito questa uscita come «un altro gettone» nel suo «pazzo jukebox». E in effetti è l’ennesima svolta nelle sue geografie sonore, anche rispetto a 16 marzo: sempre con Gow Tribe in cabina di regia (con Frenetik & Orang3), il pezzo è effettivamente un twist, in una sorta di ballo fatale con la propria amata (“Sì, donna bambina, / è una madonnina che piange per me, / ma poi mi rovina”) in stile Pulp Fiction (“Lei che balla è la donna del boss davanti al jukebox”). Un po’ triste, un po’ annoiato, un po’ godereccio: le coordinate sono le solite, insomma. Con molto cinema e citazionismo, che sia esterno (oltre a Tarantino, per esempio c’è il De Niro di Quei bravi ragazzi) o interno (i suoi Ragazzi fuori), mentre il resto lo fa il bam bam appiccicoso e sensuale dell’inciso, in eco quasi gipsy. Alla base, invece, c’è una produzione vagamente rétro (i coretti del finale), comunque poco sopra le righe, per un brano breve, di quasi tre minuti, dall’attitudine neanche particolarmente estiva, né radiofonica. Insomma: al di là dei soliti, personalissimi riferimenti stilistici alla “morte” per amore e agli abiti, il tutto corre via in maniera innocua, come la ripetizione calligrafica di un twist di quasi sessant’anni fa. Ed è questo il punto.
Negli ultimi mesi, infatti, l’esposizione mediatica di Lauro ha raggiunto vette prima impensabili, su cui lui ha sguazzato consapevole. La sua comunicazione è andata volutamente in eccesso: stories su stories declamatorie in cui annuncia progetti, visioni, pensieri legati alle canzoni in uscita, “epiche” della quarantena; decine di post in cui cambia abiti su misura, si trasforma nel look, sperimenta nell’estetica; e persino un libro, oltre (appunto) a tre singoli da febbraio a oggi. E chiariamo: sono contento delle copertine a pioggia, come pure del fatto che un immaginario originale e sempre fedele a sé stesso sia arrivato integro al grande pubblico, per un artista che credeva in quel modo di porsi antimachista, ampio e sguaiato anche quando suonava davanti a poche centinaia di persone. Ed è anche bello, soprattutto, che ora quelle canzoni possano integrasi – come dice lui, e come già sosteneva prima – in un progetto ampio, di outfit e visioni. Ma il problema è proprio che qui, da febbraio, le canzoni latitano: Me ne frego era un pezzo glam pop nato all’ombra del Sanremo dell’anno prima, 16 marzo una ballata pop-rock già collaudata (ergo: noiosa) da molti (Stadio, Vasco), questa Bam Bam Twist un revival innocuo dei 60s.
Ora: non so cosa ci sia dietro questo trasformismo, di generi e d’abiti; probabilmente Achille vuole rendere versatile e trasversale il proprio personaggio, come se la musica e la moda fossero semplici mezzi per esprimere le sfumature della sua personalità, le tappe di un viaggio artistico comunque ancora lontano dall’essere decifrato – vuole davvero provare tutti i generi? Chi mai potrebbe rimanere entusiasta da un’idea del genere? Comunque può anche starci, ma – diciamolo – rischia di stancare presto. Perché Lauro è venuto fuori con pezzi come Thoiry, con cui (almeno in Italia) si è fatto alfiere della samba trap, e poi con iconoclastie come Rolls Royce e ballate, sì, classiche à la C’est la vie, ma in cui il bello è proprio come la sua voce di borgata venga incasellata nei canoni di un pop radiofonico e ordinario, rendendo il tutto vagamente decadente. Ora, invece, è diventato un conservatore: cambia in maniera compulsiva genere e stile, ma senza aggiungere davvero niente di proprio (ed è anche difficile, con questi ritmi), anzi si appoggia sempre a modelli collaudati. E l’effetto-spiazzamento svanisce, neanche fosse puro presenzialismo.
Insomma: non è che nel mondo di Lauro, fra cambi di vestiti, stories e costruzione del personaggio, la musica stia diventano un elemento secondario, trascurato? Ripeto: è bello quando le canzoni si integrano in un’estetica a tutto tondo, specie se curata in questo modo; ma spesso è necessario che mantengano un ruolo centrale, per tenere alto l’interesse intorno al progetto. Altrimenti, se supportati da canzoni poco incisive, il rischio è che l’eccesso di comunicazione e il trasformismo disorientino e annoino. È un po’ come la sua partecipazione a Sanremo 2020: il limite fra spettacolare pubblicità di Gucci (che gli ha cucito tutti gli abiti di scena) ed esibizione memorabile (si è spogliato all’Ariston, dai) è molto sottile. E il solo far discutere, così come la bellezza di certi capi indossati, dopo un po’ non bastano più.