Era il 1973 quando Sottsass scriveva Il Pianeta come Festival e l’eco dei valori controculturali e di liberazione dei primi grandi raduni musicali come Woodstock e Isle of Wight probabilmente risuonava ancora nell’immaginario comune. 50 anni più tardi, lo scenario risulta abbastanza diverso da quello immaginato dall’architetto Italiano, con dinamiche che rendono il mondo dei festival sempre più simile ad un vero e proprio super-mercato globale.
Ecco qualche numero: solo negli USA ogni anno si contano circa 32 milioni di partecipanti ai festival, con alcuni mega-eventi il cui fatturato raggiunge cifre stratosferiche (il Desert Trip nel 2016 ha incassato $160,11 milioni).
Se guardiamo al Regno Unito le cifre non sono meno impressionanti. Tra il 2012 – 2016 il numero di persone che va ai festival è cresciuto da 2,8 a 4 milioni, trend che si inserisce nell’andamento positivo della musica live in generale. Si tratta della tanto discussa inversione di rotta iniziata con l’espansione dell’era digitale: le persone acquistano meno musica e l’industria ha dovuto fare più affidamento su concerti e festival. E fin qui nulla di nuovo.
La cosa interessante (e in fondo prevedibile) è che questa espansione durata un paio di decenni non sembra essere destinata a durare ancora a lungo: i segnali della saturazione ci sono da qualche anno e si è iniziato a notare una crescente sovrapposizione tra le line-up dei maggiori festival in circolazione. Con un Chance the Rapper che nel 2017 solo in America ha suonato su ben 11 palchi differenti, la sensazione generale è che il fenomeno interessi però anche festival ed artisti di dimensioni più ridotte.
La crescente competizione ha spinto i festival a cercare nuovi pubblici, ed è così che sono nati i festival boutique, che puntano sulla qualità dell’esperienza in toto più che sui nomi in line-up, i festival showcase, che presentano artisti emergenti a un pubblico di addetti ai lavori, e la comparsa di momenti di confronto e conference in molti festival più tradizionali per dare valore aggiunto alla propria line-up.
Se ampliamo però ancora la visuale possiamo notare qualcosa di molto interessante (e allo stesso tempo preoccupante): negli stessi anni in cui festival e musica live continuavano a crescere, i club e le music venue medio-piccole cominciavano a scomparire. Come mai infatti in Inghilterra mentre il pubblico dei festival è cresciuto del 70%, quasi il 40% dei club sono stati chiusi? Che effetto ha una tale discrepanza sugli artisti e sulla fruizione musicale?
Partiamo dalla cosa centrale, la musica. Paul McCartney ripensando alla propria esperienza con i Beatles afferma: “Senza i grassroots clubs, pubs e music venues la mia carriera sarebbe stata molto diversa. Se non supportiamo la musica live a questo livello allora tutto il futuro della musica è in pericolo”.
Insomma, senza i club medio-piccoli forse i Beatles non sarebbero nati, o comunque ne sarebbe venuto fuori qualcosa di completamente diverso. E quando l’organizzatore dell’Isle of Wight festival dice una cosa come “ogni anno diventa sempre più difficile perché la music industry non produce nuove star e si finisce ad avere i soliti artisti in giro” io mi chiedo: se i club continuano a sparire, cosa succederà agli headliner dei festival tra 5 o 10 anni?
In quest’intervista l’artista americano DVS1 riflette poi su come il format stesso delle performance ai festival rischi di appiattire l’espressione musicale in toto. Considerando che ogni artista quando si esibisce ad un festival viene ripreso da migliaia di persone, quanti se la sentono di uscire dalla comfort zone quando un “errore” potrebbe poi essere amplificato in centinaia di migliaia di view andando a minare le rispettive carriere? Con la scomparsa dei club, quale spazio meno vincolato dalle logiche di mercato rimane per sperimentare e prendersi dei rischi a livello artistico?
C’è chi poi fa un parallelismo tra Spotify e festival, affermando che i grandi eventi musicali sembrano rispondere meglio all’esigenza delle nuove generazioni di poter accedere a tantissima musica diversa nello stesso momento. “Ai Festival si paga meno, l’offerta e la domanda si incontrano con meno mediazioni, si prendono dieci esperienze al prezzo di una (…) È meglio che passeggiare nei centri commerciali, no?”
E in questa logica l’esperienza dei club che offrono line-up con uno o pochi artisti per sera non può certo competere a livello di quantità-prezzo e spettacolarità. Ah già, perché negli ultimi anni è entrata nell’equazione anche l’instagrammabilità dell’evento, con festival e brand oramai specializzati nel rendere l’esperienza appetibile per i socials e ottenere così visibilità organica (e gratuita) attraverso i profili del proprio pubblico. Anche qui una partita che i club non possono neanche iniziare a giocare.
Ovviamente non tutto va come in Inghilterra, in America o in Olanda, e se guardiamo all’ Italia sia i festival che i club si trovano in difficoltà, colpa anche di istituzioni che raramente hanno un approccio costruttivo e di regolamentazioni che difficilmente tengono presente delle dinamiche del settore.
Con queste riflessioni e domande in testa, a Torino è nato di recente Club Futuro, un progetto-esperimento che valorizza gli aspetti culturali e sociali dei club, cercando di comprendere l’ecosistema per costruire soluzioni e nuove scenari.
Club Futuro lavorerà nei prossimi mesi su Torino, una delle città leader in Italia per i festival musicali (si pensi a Club To Club, Kappa FuturFestival, Flowers Festival, ToDays, Jazz Festival, Jazz is Dead) e che per questo deve molto al fermento dei suoi club negli ultimi 30 anni. Con la recente diminuzione degli spazi a disposizione, viene spontaneo chiedersi come saranno i festival musicali a Torino tra dieci o vent’anni?
Già perché le music venue medio-piccole oltre che a incubare artisti, formano anche le professionalità indispensabili per poi far funzionare il resto della music industry (pensate al Fyre Festival e di come logiche di marketing e la mancanza di professionalità possano causare veri e propri disastri).
Perché in fondo quando entriamo in un club o andiamo ad un festival viviamo le motivazioni, le passioni e la visione delle persone che lo hanno costruito e lo fanno vivere.Se tutto ciò viene offuscato dalla pressione di mercato e da una mancanza di strategie comuni, rischiamo di perderci per strada qualcosa di davvero bello. E ci perderemmo tutti.
Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con cheFare, organizzazione che promuove pratiche di cultura collaborativa e che, insieme a Club Futuro, sta esplorando complessità e possibilità del mondo dell’economia della notte.