Dal 1917 la Columbia University di New York gestisce e amministra la consegna dei prestigiosi premi Pulitzer per il giornalismo americano e tra i premiati ci sono nomi del calibro di Tennessee Williams e Harper Lee, autori, scrittori e giornalisti che hanno dato forma alla letteratura e al giornalismo d’oltreoceano e mondiale. Le categorie sono ventuno, tra cui fiction, poesia, servizio pubblico, reportage investigativo e musica: quest’ultima in passato ha premiato soltanto artisti e musicisti di classica o di jazz. Mai musica pop, né tantomeno rap.
Nel 2018 Kendrick Lamar, rapper nato a Compton, California (1987), si porta a casa, per la categoria musicale, il primo premio della storia dei Pulitzer assegnato ad un rapper.
Oltre ad essere un bel dito nell’occhio a Donald Trump, il premio sta a dimostrare quanto l’America sia brava a bilanciare i suoi umori, tra il negativo e il positivo, tra la testa e la pancia, e a mettere su un piedistallo, sempre al momento giusto, il proverbiale underdog, cioè colui che per definizione, con meno possibilità di vincita sulla carta arriva primo a sorpresa, provocando il vero effetto sconcertante. Che non farà altro che valorizzare e rendere autorevole premio e premiato nel medesimo istante.
Non gli danno il Grammy per disco dell’anno? Fa niente. K.Dot porta a casa un premio Pulitzer. Meritatissimo quanto inaspettato, perché nessun rapper prima di lui era riuscito in questa impresa, nonostante non sia certo il primo a raccontare in modo esplosivo una realtà sottintesa che invece merita davvero di essere raccontata. Il motivo? Azzardo: in un momento in cui siamo tutti occupati ad intrattenerci con il nulla rendendolo evento, traguardo e viaggio allo stesso tempo (non solo nel rap, ma anche in tv, in radio, su Instagram, ecc. ecc.), Kendrick ha scelto invece di mettersi in mostra con una narrazione puntuale, tonda, personale e nel contempo universale della realtà che ci circonda, tanto naturale quanto efficace e rilevante. Impossibile da ignorare. Cruda ed elegante allo stesso tempo.
Mentre siamo più o meno mollemente annoiati sul divano a postare e a guardare tatuaggi, gioielli veri e finti, emozioni vere e finte, soldi veloci e stereotipi facili, Kendrick se ne va in giro a piedi a prendere appunti: pare che stia pochissimo fermo e che passi la maggior parte del suo tempo per strada a parlare con la gente per poi riportare il tutto in studio, iperpotenziando le sue parole e le sue immagini con la musica più perfetta, alla quale dedica moltissima energia.
Kendrick Lamar riesce ad avere molta classe ed eleganza anche quando è brutale. Incredibilmente, il pubblico pigro di cui sopra che si eccita solo quando vede una rissa su Instagram, si relaziona a lui ed entra nella sua narrazione, nelle sue rime, nei suoi video, nelle sue storie per osservarsi allo specchio almeno un attimo. K.Dot non utilizza i social, non si tatua la faccia, non si fidanza con nessuna stellina da milioni di seguaci, non ostenta ricchezze da pirata, ma vince il Pulitzer con questa motivazione: “Damn è una virtuosa collezione di canzoni, il cui fil rouge è dato dall’autenticità del linguaggio utilizzato e da un dinamismo ritmico che regala immagini toccanti, in grado di catturare al meglio la complessità della vita attuale della comunità afro-americana”. Che, in quanto minoranza significativa e rilevante, è l’elemento che risulta indicativo per valutare fatti e situazioni che travalicano i suoi confini, la cartina di Tornasole per la società attuale tout court. Nonostante Trump faccia di tutto per ignorarla. Amen.