Una volta tanto sta succedendo una cosa piacevole e anche interessante, che vorrei condividere. Attenzione: non è un attacco personale, altrimenti il tutto presupporrebbe un mio benché minimo interessamento, invece i nomi che vengono chiamati in causa questa volta fanno parte di quella parte di cielo di cui non mi interessa assolutamente nulla (e per la quale non nutro alcun tipo di speranza). In genere sono solito inasprire le mie disamine quando vedo una qualche uscita infelice o una mancanza di coerenza o di integrità da parte di chi penso sia importante per la scena italiana: delle mirabolanti avventure de Il Volo, invece, non me ne curo affatto.
Mi pare simpatico notare un’interessante sfumatura italiana che, una volta tanto, sembra coincidere con la mia visione del Mondo. Il che non accade spesso e quindi non ritengo essere poco. Qualche anno fa è uscito fuori questo terzetto di cui, veramente, non riesco a memorizzare i nomi. A essere precisi, sono passati dieci anni dal loro debutto, in veste di solisti, all’interno di un talent-mappazzone di mamma Rai, Ti Lascio Una Canzone ma, per il pubblico che non stia attento alle varianti televisive di Antonella Clerici, i “Tre Tenorini” restano materia ignota, subdola, del tutto priva di un proprio spazio e di un proprio tempo, e che arriva da una finzione scenica, quella del talent, ma ancora più insignificante degli altri. Perché priva di pressoché tutti i requisiti che rendono, ad essere un bel po’ ingenui a dire il vero, credibile il talent stesso. L’età imbarazzante dei concorrenti (tra gli 8 e i 16 anni), giurati improbabili (da Bud Spencer ad Anna Falchi), un caleidoscopio di cover improbabili (tagliatelle e pappe col pomodoro comprese, vista la presenza della Clerici) e un televoto da casa fatto per lo più da pensionati, fan dello Zecchino D’Oro e forse qualche pedofilo con velleità canore. È in questo contesto che Gigio, Gigino e Gigetto diventano qualcuno. Lì e in una carrettata di trasmissioni affini dove il fattore musicale è una parentesi azzurra (Modugno docet) tra le parole “Sti” e “Cazzi”: Porta A Porta, Miss Italia, Una Voce Per Padre Pio. Ovviamente, il resto della Penisola continua da dieci anni a vivere infischiandosene allegramente di chi siano e di cosa combinano – discograficamente parlando o meno.
Non solo: i tre sembrano avere una intensa predisposizione a stare sul culo a tutti. Lo dimostra in tal senso il pessimo riscontro che riescono ad avere anche su magazine notoriamente teenageriali dove, per un breve periodo, si è tentato a spingerli come nuovi idoli delle ragazzine. Ma persino quelle, da assidue lettrici di Cioè, Teen Power e affini, a un rapido confronto delle foto (e delle sonorità) dei One Direction con quelle dei Tenorini hanno pensato di poterne fare a meno. Visto però il crescente numero di poster de Il Volo apparsi sulle pareti di circoli bocciofili e case di riposo, qualcuno per loro deve aver pensato che fosse giunto il momento per un cambio netto. L’idea di farne un prodotto d’esportazione è sempre stata nell’aria; non a caso, i fenomeni prima di chiamarsi Il Volo (Modugno ri-docet), per un breve periodo si sono fatti chiamare The Tryo.
Agghiacciante, lo so. Ma chiunque abbia un minimo di conoscenza del mondo della musica (o un briciolo d’intuito, fa lo stesso) sa da sé che suonare all’estero non è semplice. Soldi e tempo sono il nemico numero uno, ma c’è anche dell’altro: promoter, viaggi e comunicazione non sono cose da sottovalutare. Ne sanno qualcosa più della metà dei gruppi indipendenti (ma non solo) italiani che in America non ci sono mai stati e chi sa se ci andranno mai. Ma Il Volo, almeno in questo hanno fin da subito un paio di marce in più. Credo in primo luogo che presentarsi a New York come a Toronto o ad Haiti rappresentando a pieno lo stereotipo italiano per eccellenza (‘O Sole Mio, per capirci) sia un pelino più facile che andarci con qualcosa di personale, inedito e magari pure insolito. Chiedetelo ai vari Afterhours o Caparezza. Ma non c’è solo questo, se no avremmo orde di italiani a cantare Funiculì Funiculà all’Opera House di Detroit. La constatazione più interessante è notare una figura alle spalle di Al, John a Jack: tale Tony Renis.
Probabilmente sconosciuto a chiunque di voi non abbia mai fatto un controllo alla prostata, è un cantautore, attore e produttore discografico molto in voga dagli anni Sessanta in poi. Di questo però ci interessa poco. Renis è stato per lungo tempo il pupillo di uno dei più grandi boss di Cosa Nostra, Joe Adonis, al secolo Giuseppe Antonio Doto, un italo-americano di Avellino. Si dice fondatore della Murder Incorporated, l’Anonima Omicidi, e braccio destro di Lucky Luciano, per il quale aveva gestito il celeberrimo Copacabana di New York, dove era solito esibirsi anche Frank Sinatra. Rispedito in Italia in quanto ospite non gradito, Adonis tra le prime persone con cui stringe amicizia è proprio un giovanissimo Renis. Elio Cesari, questo il suo vero nome, con il supporto del suo nuovo amico sfuggito dal cast de Il Padrino, fu il primo italiano a suonare regolarmente negli USA, prima a New York e poi a Los Angeles, Las Vegas e così via.
Ma non c’è solo questo: la passione di Adonis per la musica italiana lo spinse a tentare pure un contro-Festival della Canzone Italiana (dopo anni in cui aveva presenziato a quello di Sanremo tra il pubblico, ovviamente in prima fila) ma solo con cantanti del suo clan. Tony Renis in testa. La cosa sfumerà per l’intervento della magistratura che, insospettita da tutta questa strana passione musicale, lo spedirà in “esilio coatto” nelle Marche. Lontano dai riflettori e soprattutto dalle case discografiche. Un’ultima cosa per nulla da poco, durante la permanenza americana di Renis negli Stati Uniti, ci fu la firma di un contratto d’oro su Warner Bros per un Disco Quando, reincisione con un arrangiamento ballerino del suo cavallo di battaglia: Quando Quando Quando. Il Volo, come primi traguardi per la notorietà interplanetaria, hanno stretto amicizia con Tony Renis e firmato un contratto con la Geffen americana, sotto-etichetta della Warner Bros. Sono coincidenze, ci mancherebbe. Indossare i panni di Michael Moore, in questo contesto, farebbe sorridere anche me. Oppure c’è del vero e Qui, Quo e Qua, attraverso Renis, si sono venduti a quel che ne resta della mafia italo-americana. Francamente, chi se ne frega.
L’osservazione davvero bella è un’altra. Fino a qualche giorno fa pensavo a quello di Sanremo come a un pubblico gretto e ignorante, al quale piace abboccare a qualsiasi cretineria gli venga spacciata per musica, incapace di distinguere la differenza che passa tra Paola & Chiara e Madonna e tutta una serie di variabili mediocri che piacciono da tempo al telespettatore medio italiano: l’apparire in ogni contesto, il millantare amicizie importanti, lo sbrodolare traguardi inverosimili. Quello che avrebbe dovuto trasformare chiunque, al posto de Il Volo, in qualcosa di veramente grosso almeno per una manciata di settimane (come sempre è accaduto con chi ha vinto il Festival o è stato invitato come Super-Ospite).
In questo caso invece il danno sembra non essersi compiuto. Perché più mi guardo in giro e più vedo gente che grida allo scandalo, e sembrano non bastare nemmeno vagonate di selfie con Barbara Streisand, Ozzy Osbourne e pure il Papa, sbandierati dai vincitori della 65° edizione del Festival, per offuscare un concetto chiaro e semplice a tutti: le canzoni de Il Volo (oltre a essere veramente brutte) non rappresentano nessuno. Almeno musicalmente – televisivamente magari sì.
Ma era dalla finale dei Mondiali del 2006 che non vedevo tanta gente sotto la stessa bandiera: punk, pop, dark, metallari, rapper, laziali, romanisti, tutti insieme sotto un’unica idea comune. Forse perché Il Volo stanno alla musica italiana come lo chef Buddy Valestro sta alla cucina siciliana. È un’Italia tarocca vista dall’America, un marchio che difficilmente ci leveremo di dosso ma che fomentare in maniera così spregiudicata ci sembra folle. Grottesco, se ci ricordiamo le antichità random proiettate dietro ai disgraziati all’Ariston durante la loro esibizione come nel peggior Casinò di Las Vegas. Criminale, se pensiamo ai “Sole/Cuore/Amore” e non capiamo perché se li canta Valeria Rossi in un tormentone estivo è una demente e se li cantano Il Volo in mondovisione sono Pavarotti al cubo. Perché quello è il concetto del Made in Italy vincente dall’altro capo del mondo, non qui da noi, assieme alla pizza (rigorosamente con la pummarola ‘ncoppa), Fellini, Valentino e i ravioli Alfredo (che qui neanche sappiamo cosa sono). Il resto conta poco o nulla. Allora molto meglio l’Orchestra Italiana di Renzo Arbore che a 81 anni suonati e senza look studiato e trendy sembra meno vecchio e venduto al migliore offerente di loro tre.