Il Festival di Sanremo ci ha impiegato quattro anni per omaggiare Pino Daniele, uno dei più grandi esponenti della nostra musica, nonché l’artista napoletano più conosciuto e riconosciuto in Italia. E lo ha fatto per tre minuti e quarantotto secondi, all’una di notte, in silenzio, senza omaggi sonori. Questo, in sintesi, è un po’ destino del suono di Napoli, così importante ma così esiliato dalla storia della musica italiana.
Per le ultime generazioni, il suono che rappresenta Napoli è la musica neomelodica, quello che Mixmag, nel suo report sulla rinascita sonora della città, ha definito Camorra music. Per intenderci: Gigi D’Alessio, Maria Nazionale, Gigione, Tommy Riccio. In questi anni, invece, siamo di fronte ad una rinascita. Liberato ha rilanciato un uso intelligente e contemporaneo del dialetto napoletano all’interno della rotazione radiofonica. I Nu Guinea, con Nuova Napoli, sono diventati dei producers di culto, anche grazie alla compilation Napoli Segreta, un’affascinante raccolta di obscurities & rarities della disco funk partenopea degli anni ’70 e ’80 pubblicata con DNApoli e Famiglia Discocristiana.
E ancora, Bawrut, uno dei producers italiani più riconosciuti nella nuova scena clubbing europea, ha costruito una hit da dancefloor campionando Devozioni Dialettali di Enzo Avitabile e la Periodica Records, con producers come Pàscal, Modula, Mystic Jungle, ha proposto una rivisitazione del suono di Napoli in chiave post-italo-disco.
Ma da dove hanno tratto ispirazione tutti questi musicisti e producers contemporanei? E qui torniamo al buon Pino Daniele. Ci fu un decennio, quello degli anni ’70, dove la musica del capoluogo partenopeo trovò una dimensione internazionale, unica nel suo genere, tanto da guadagnarsi il nome di Neapolitan Power. In quegli anni, la musica di Napoli era fin troppo avanti. Era avantissimo.
Il Neapolitan Power, o Napoli Power, non è figlio della Camorra. È figlio dei movimenti post-sessantottini e, in particolare, della contaminazione che il capoluogo ebbe con la cultura americana che, dalla liberazione bellica, si espanse negli anni ’60 con il programma Rai Good Morning from Naples, per incarnarsi nella figura di un vero figlio della guerra, il sassofonista e cantante James Senese. È proprio attorno a quella stravagante e originale figura di sassofonista di colore che mastica un dialetto stretto-stretto viene a crearsi un nuovo suono di Napoli. Con Mario Musella, altro figlio meticcio della guerra, Senese fonda gli Showmen e, poco dopo, gli Showmen 2, patri putativi di un’innovazione che in breve tempo porta alla fondazione di una delle band più importanti e significative della musica italiana: Napoli Centrale.
Una commistione di prog (all’epoca, nei primi ’70, così dannatamente in voga), funk, blues, jazz, in cui il mondo della black music viene – per la prima volta – mescolato alla tradizione italiana, al folklore del dialetto napoletano così simile, per assonanze, alla lingua americana. Un’internazionalità locale, un esempio di musica glocal, innovativa, figlia di mondi differenti come la tradizione napoletana e l’importata cultura statunintese. Un globish partenopeo. Attorno a Napoli Centrale gravitano personaggi come Pino Daniele (ne fu bassista nel 1978) che, proprio con l’aiuto di James Senese e gli altri strumentisti della band Ernesto Vitolo, Agostino Marangolo e Gigi De Rienzo, lavora a quei suoi fenomenali dischi d’esordio: Terra Mia (1977), Pino Daniele (1978), Nero A Metà (1980).
In questi dischi, partecipa ai fiati un altro mostro sacro, Enzo Avitabile, uno degli strumentisti napoletani di maggior successo. Una figura cult, capace di flirtare con pop, rap, blues, funky, soul. Sempre attorno al grande Pino, gravita anche Tony Esposito, uno dei più percussionisti più affascinanti che la nostra penisola abbia potuto abbracciare. Il sound ritmico del Napoli Power è suo, una miscela sensuale e popolare di blues, funky, jazz, world che possiamo ammirare in Rosso Napoletano (1974) dove ha partecipato anche Paul Buckmaster, arrangiatore e tastierista che, nel 1969, collaborò con David Bowie per Space Oddity e, nel 1972, in On the Corner di Miles Davis. Pino Daniele, difatti, non è solo il musicista più rappresentativo del periodo, ma è anche un magnete per i migliori musicisti in circolazione.
Al suo fianco, difatti, troviamo anche quel genio di Tullio De Piscopo che, con Suonando la batteria moderna del 1974, rivoluzionerà il modo di concepire lo strumento. È nel suono di Napoli che l’Italia trova la sua massima espressione musicale internazionale: la black music si sposa con il melodismo all’italiano, in un’unione senza precedenti. In Italia non c’è, e non ci fu, nulla di così fresco e internazionale come quel suono di Napoli. E ora, a cinquant’anni dalla sua nascita, è magnifico vedere una nuova generazione di musicisti e, in particolare, di producers, nell’atto di recuperare ed evolvere un periodo (e un luogo) dimenticato della storia della musica italiana. In un periodo dove il popolino insorge razzista per la vittoria sanremese di un cantante italiano di origine egiziana, recuperare il suono meticcio di quella Napoli è un gesto simbolico, nonché un piacere per l’ascolto.
Discografia consigliata:
Showmen 2 – 1972 – Showmen 2
Tony Esposito – 1974 – Rossa napoletano
Tullio De Piscopo – 1974 – Suonando la batteria moderna
Napoli Centrale – 1975 – Napoli Centrale
Pino Daniele – 1977 – Terra Mia