Mahmood è una pop star, forse l’ultima in ordine di tempo per l’Italia. Partecipa a Sanremo, all’Eurovision e ad altri appuntamenti di rito per il pubblico generalista, ma ha pure una credibilità street. E Dorado – uscita oggi, in attesa del nuovo album – è la miglior cartina di tornasole di ciò: nell’immaginario che ha costruito lui stesso, dalle case popolari alle suggestioni di una fuga più o meno romantica e tropicale, già benedetto dalla scorsa Moonlight popolare, anche stavolta parla di collane e Ferrari, sì, eppure innesta un ritornello killer cantilenante, comunque ipnotico, sensuale.
Non bastasse, arrivano nientemeno che Sfera Ebbasta – con cui già aveva collaborato in Calipso: ma lì erano entrambi ospiti di Charlie Charles – con un AutoTune spettrale e tiratissimo e il rapper colombiano Feid che canta in spagnolo e tira la bussola del pezzo verso il Sud America. Ma la vera forza della canzone sta nel contenere queste spinte sotto le coordinate del padrone di casa. Siamo davanti a uno street pop che non perde di vista l’Italia pur guardando all’Africa, non tanto nel testo (si citano le sabbie di Il Cairo e Casablanca) quanto negli echi dell’arrangiamento firmato Dardust, e per il resto con la cassa in bella vista ammicca alla latina, riducendola però – con un lungo lavoro di sottrazione – allo scheletro, senza iper-produzioni di sorta. Insomma: è il pezzo radiofonico, potenzialmente la canzone x dell’estate con le pulsazioni in stile reggaeton; ma è anche molto altro.
È, più semplicemente, l’ennesima prova che Mahmood ha trovato la quadra di un pop di fascino per l’airplay, le feste da spiaggia, i festival in piazza da prima serata, ma anche e soprattutto calpestato da influenze da strada, che si prende Sfera o chi per lui e lo riconduce sotto il comun denominatore della sua voce melodica, degli immaginari che si scontrano cercando insieme una via di fuga, delle produzioni minimale (ma mai spartane, semmai di classe) in stile urban.
C’era una volta, si direbbe, Coez: per un po’ è stato (per certi versi lo è tutt’ora) il feat più richiesto in ambito hip hop, per la capacità di scrivere ritornelli micidiali che calzano a pennello coi pezzi dei vari rapper – dal Gemitaiz meno hardcore ad addirittura Noyz Narcos – oltre che per la credibilità street. Ebbene: se però Silvano, quando si mette in proprio, rimane guardingo dalle parti di un indie pop (di cui è uno dei precursori, va detto) senza sovvertire troppo la formula, Mahmood riesce a essere persino più versatile, da una parte mettendosi in gioco come ospite – nell’ultimo anno, per citarne alcuni, è stato da Gué, Marracash, tha Supreme, lo stesso Gemitaiz – e dall’altra, se si tratta di fare per sé, chiamando altre voci e tenendole a bada. Solo per unire i puntini delle ultime uscite: Rapide (gennaio) è una ballata pop cristallina in solitaria, con un saliscendi emotivo e vocale non rivoluzionario ma di gran classe, prodotto da Dardust; Moonlight popolare (maggio) convoglia la durezza di Massimo Pericolo all’interno di una hit melodica, da radio, su firma però di Crookers (non proprio il pupillo di un suono mainstream); Dorado, infine, sembra portarci a ballare a sud, fra il barrio e le piramidi. E lui, nel dubbio, ne esce sempre con la grazia e lo stile di un principe della periferia.
Non è facile, allora, prevedere cosa conterrà il suo prossimo disco, ma il punto per adesso è un altro: questo non è un pop tradizionale, perché riempito di elementi di strada vera e sonorità ultra-contemporanee (la trap, la latina), oltre che pronto a fare il giro del mondo (il Sud America, l’Egitto) e potenzialmente di impatto internazionale (e siamo in Italia: pazzesco, no?); per questo, gli si danno etichette come urban, street pop. Ma basta salire alla radice, alla percezione che le radio e il Paese reale hanno di questa musica e del personaggio (i numeri parlano chiaro, le copertina delle riviste di moda anche), per capire che si tratta comunque di pop in grande stile, di cui Mahmood con personalità, capacità di essere trasversale e un sacco di amici – che siano producer da airplay o stelle del rap game, non importa da dove vengano – per primo sta cambiando davvero l’estetica, spiazzandoci. E per fortuna, s’intende.