Sono corso alle transenne per un solo concerto in vita mia: i Van Halen. Era il gennaio 1995, facevano uno showcase a inviti al Factory di Milano, ci andai con mio fratello minore. Stare a tre metri da Eddie Van Halen e vederlo in azione è stata un’esperienza. In quel periodo la Ibanez stava cominciando a produrre il mio primo modello di chitarra signature. Mio fratello Matteo, che fa il grafico ed è ancora più fan di me, ha disegnato le geometrie disegnate sulla chitarra che sono un evidente omaggio a Eddie Van Halen.
Ho cominciato a mettere le mani sulla chitarra a 6 anni. Letteralmente: sdraiavo l’enorme Hofner semiacustica di mio padre e ci appoggiavo sopra le mani. A 14, 15 anni ho comprato la mia prima elettrica. Quando nel 1978 uscì il primo disco dei Van Halen già sognavo di avere un giorno una carriera luminosa. Credo sia successo a milioni di altri chitarristi: ascoltare Eddie Van Halen mi fece venir voglia di mollare tutto. Ti faceva tremare le mani e venire un sacco di dubbi. Non avevo mai sentito niente di simile. Come faceva ad avere quel suono e quella potenza di fuoco? Era sbalordito. Dopo Jimi Hendrix, i Led Zeppelin e i Deep Purple si pensava che la chitarra non potesse più esprimere grandi novità. E invece è arrivato lui e ha lasciato tutti a bocca aperta.
Stiamo parlando di un chitarrista che ha assemblato il suo strumento, la cosiddetta Frankenstein, perché in commercio non c’era un modello con le caratteristiche che lo soddisfacessero. Pare poi che sovralimentasse in maniera esagerata le testate. La cosa impressionante di Eddie Van Halen è proprio il suono inconfondibile. Ma attenzione: non è il semplice prodotto delle apparecchiature, contano maggiormente orecchio e mano, e difatti la prima chitarra di Van Halen aveva solo un pickup e la regolazione del volume. Se dai a un grande chitarrista come lui, Page, Hendrix, Knopfler o Santana una chitarra e un ampli qualsiasi, lui cercherà sempre il suo suono personale, quello che sente dentro. E questo è un talento: ci nasci oppure no. Oggi molti suonano con apparecchiature che per certi versi sono fantastiche come i profilatori di suono, ma usandoli non c’è modo di avere un sound personale.
Una cosa distingue Eddie Van Halen da chi è venuto dopo: era un virtuoso, ma sapeva dosare frasi ad effetto con poche note ad accelerate incredibili. Non è era mai noioso, era sempre molto caldo, quasi blues. Non eccedeva. Invece gli shredder, cioè i chitarristi tecnici che sono venuti dopo di lui suonano sessantaquattresimi alla velocità della luce, non si fermano mai, non si riesce nemmeno a sentire se hanno un delay perché non fanno mai una pausa. Anche lui era dotato, ma aveva il senso della dinamica.
Ho rubato molto da Van Halen, non solo cercando di imitarne frasi e lick, ma anche prendendo da lui alcune tecniche. Ad esempio il gusto per i bending esagerato, fuori misura, e cioè l’effetto glissando che si produce suonando una nota e spingendola corda verso l’alto. I suoi bending erano lancinanti, con intervalli da un tono e mezzo, due. Anch’io sono sempre al limite. In fase in mix faccio spesso una cosa che faceva lui: metteva la chitarra senza effetti su un canale e il riverbero e il delay sull’altro canale. Così facendo, chi ascolta ha la sensazione che la chitarra abbia uno spettro ampissimo.
Ci sono software, tastiere e plug-in che tentano di replicare il suono degli strumenti e alcuni ci riescono sufficientemente bene. Sono anni che batteristi e bassisti soffrono per questo. Ma è impossibile replicare le sfumature e i colori di quel che suona un chitarrista in carne e ossa. Un pianista può suonare un do forte e piano, a crescere o decrescere. Con la chitarra un do lo puoi suonare con il plettro, con una moneta, col pollice, con l’unghia, lo puoi prendere attraverso un bending, un legato, uno slide e ogni volta avrà un suono e una dinamica diversi.
Oggi la musica, passatemi questo gioco di parole, si è ratTRAPpita. Ma così come non sono finiti la classica, il jazz e la disco music, anche il rock chitarristico non sparirà mai.