Come vi immaginate da quarantenni? Nonostante i tempi incerti che viviamo, non dovrebbe essere difficile. Certo, per qualcuno di voi sarà un bel salto nel vuoto in stile Marty McFly, per altri una realistica analisi di anni prossimi a venire, per altri ancora un percorso indietro fino a quel fatidico periodo. A quarant’anni non sei né giovane né vecchio, entri nel pieno della seconda età adulta. Se hai lavorato sodo, quello è il periodo della vita dove inizi a raccogliere le soddisfazioni. I Pink Floyd, orfani di Roger Waters, diventano pienamente quarantenni nel 1989.
Immaginate allora di portare in giro uno dei nomi più celebrati della storia della musica degli ultimi vent’anni, oserei dire alla lettera, visto quel “Pink Floyd – London” che appare scritto da sempre sulle casse della strumentazione di David Gilmour, Nick Mason e Richard Wright; immaginate di essere tra le star più idolatrate di sempre, di essere in grado di riempire enormi arene negli USA e stadi in Europa, di essere sinonimo di ottima qualità musicale e di encomiabile sensibilità umana. Ma anche di tornare ai concerti dopo un album controverso come A Momentary Lapse of Reason, senza alcuna garanzia di successo proprio per la diserzione di Waters. Ora pensate che, dopo tante date, vi si dia la possibilità di avere un luogo dove poter immortalare, per le generazioni future, la vostra storia. Forse l’ultimo (e più importante) posto in cui fare risuonare la vostra musica. Voi quale scegliereste? A dire il vero, la mano dietro una delle decisioni più importanti dei Pink Floyd è italiana, pure se il tour program recitava un internazionale “Venice, the Lagoon” già mesi prima che la band sbarcasse in Italia. La mano è quella di Francesco “Fran” Tomasi. Diremo un ottimista, un visionario, un idealista, un sognatore che solo l’anno prima aveva allestito lo Human Rights Now, live-evento con Peter Gabriel, Sting e Bruce Springsteen.
Fu Tomasi a proporre ai Pink Floyd, dopo tre date all’Arena di Verona, una a Monza, due a Livorno e due a Cava dei Tirreni, di concludere il tour italiano a Venezia, con un concerto gratuito in laguna, davanti a San Marco, su un palco galleggiante, il 15 luglio, giorno del Redentore. Follia pura. Roba che l’Home Venice al confronto sembra la Sagra della Ranocchia di Casal Bernocchi. I Pink Floyd, manco a dirlo, accettarono con entusiasmo, integrando di tasca propria i costi dell’evento.
I Pink Floyd nei loro tour avevano sempre cercato di fare concerti in spazi prestigiosi: il contenitore è sempre diventato parte della scenografia. Vi basti pensare, rimanendo alla penisola italiana, alle scelte ricadute su Pompei nel 1971 o su Cinecittà nel 1994. Nel 1989, Fran Tomasi aveva l’ufficio a Venezia e gli sembrò che Venezia, per la magia che possiede, potesse essere la location speciale che la band cercava. Ma quando fare il concerto? Avendo in mente proprio di esaltare la città e di fare un regalo ai suoi abitanti, pensò alla festa più popolare per i veneziani: il Redentore, nata per la fine della peste e che si svolge ogni secondo sabato di luglio.
La festa del Redentore è un evento molto sentito dai veneziani i quali, già nel pomeriggio, si riversano con le loro barche di fronte San Marco, con luci colorate, cibo e vino a volontà. Per un veneziano è la vera festa di Venezia, visto che il 25 aprile, giorno di San Marco, si condivide con la festa nazionale della Liberazione. Insomma, per un veneziano il Redentore è una cosa seria: non soltanto una scusa per vedere i bellissimi giochi di luci dei fuochi d’artificio in laguna. Già nel ‘700, però, musicisti allietavano cittadini e forestieri al suono degli strumenti dell’epoca, montati su piccole zattere in mare. Così, con un pizzico di follia in più, Francesco pensò di riproporre la tradizione facendo però suonare i Pink Floyd. Inizialmente pensò alla punta estrema della Giudecca, in terra ferma, l’area che però, dopo le analisi dei tecnici, risultò troppo piccola e inadeguata. Allora nacque l’idea della zattera. Un’impresa tecnica fra le più ardue che l’Italia concertistica (ma anche i Pink Floyd) abbia mai affrontato. Tanto che quello a Venezia è a tutt’oggi considerato uno dei 10 concerti più belli di sempre. E non solo per l’idea in sé.
Si trattava di bloccare il traffico delle navi, studiare maree e valutare correnti, mettere in sicurezza un impianto elettrico messo (letteralmente) a mollo, rendere stabile il palco e il mixer che era collegato con cavi sottomarini a una profondità di 35 metri. Il lavoro, svolto da due ingegneri sub scozzesi, consisteva nel ancorare al fondo sabbioso le zattere e augurarsi che il concerto non lo finissero trasportati dal mare a Trieste, con tutto il carico di schermi rotondi, bracci meccanici, droni per gli effetti luminosi, ampli sospesi, monitor e tutti i congegni necessari allo show che ne alteravano l’immobilità. Tutto questo andava considerato e collocato in acqua. «Non è stato facile trovare le zattere» ricordava lo stesso Tomasi. «Ne servivano due e quella grande per il palco doveva misurare 50 metri per 30».
Ma il vento delle polemiche non fu tecnico ma politico e, di diretta conseguenza, sociale. Come al solito lo scontro si radicalizzò su due posizioni, una pro e una contro. Senza margini di mediazione. Senza rivangare troppo l’ennesima storiella fatta di provincialismo, bigottismo, eccessi critici e litigi da retrobottega, furono settimane di totale delirio, in cui sia i Pink Floyd che Tomasi, tolta la Guerra di Troia, vennero accusati di tutto. Costretti a estenuanti lanci stampa per spiegare anche l’ovvio – come ad esempio che i Pink Floyd non erano una band di heavy metal, come detto da un assessore. I cavalli di battaglia del fronte del “no” furono due: il volume e il decoro. Titoli catastrofici come “Il campanile a rischio crollo” e quesiti come “Perché proprio i Pink Floyd?” erano all’ordine del giorno, mentre a Venezia comparivano sui muri scritte anti-contrari – con replica dei favorevoli di essersele scritte da soli. Tutto condito con accuse di incoraggiare un giro di tangenti, il vandalismo, lo spaccio d’eroina e pure un tentativo di svaligiare la Basilica.
Molto più maldestramente, l’unica cosa certa è che, trovato il compromesso di abbassare il volume, la piccola guerra culminò la notte del concerto, quando l’allora presidente dell’AMIU di Venezia, in forza tra gli oppositori e voce delle minacce di non fare disporre i bagni chimici per impedire lo svolgimento del concerto, decise di lasciare per una notte i rifiuti del numerosissimo pubblico, per poi fare cavalcare ai compari lo scandalo della sporcizia e l’invasione dei giovani barbari. Il Gazzettino, la mattina dopo, titolava puntuale “Mai più così”. L’ennesima vicenda di meschinità italiana degna di un film di Dino Risi, che avremmo preferito vedere più al cinema che doverla raccontare per un trentennale.
Il 16 luglio 1989 David Gilmour si trova con i suoi compagni sullo yacht ancorato nella laguna e usato la sera prima come backstage. L’hotel Lido, dove la band alloggia, è diventato un inferno di giornalisti, fan e semplici provocatori. Appoggiata sul tavolo la rassegna stampa comprensiva di un supplemento di otto pagine del Messaggero sull’evento, in cui compare anche un articolo firmato da un fan d’eccezione come Carlo Verdone. Nonostante le difficoltà e le polemiche, il concerto è stato un successo straordinario, finito esattamente qualche secondo prima dell’inizio dei fantastici giochi pirotecnici del Redentore e che ha messo in secondo piano non solo le tappe precedenti in Italia (in molti credono che abbiano suonato soltanto a Venezia) ma pure la data conclusiva del tour europeo in toto, nella prestigiosa cornice del festival di Knebworth, da cui sono già state fatte le registrazioni per il futuro Delicate Sound of Thunder. Allora il suo celebre sorriso gli appare in volto, sornione. Lui è David Gilmour, oramai una leggenda vivente, il chitarrista più vicino alla divinità del mondo (non a caso ha appena avuto il terzo figlio con la modella Virginia “Ginger” Hasenbein, mica con Miss Acitrezza), e poco conta se la Rai per la diretta in mondovisione del concerto lo ha costretto ad accorciare gli assoli per tenere conto dalle pubblicità. Nick Mason e Richard Wright lo conoscono, quel sorriso, e non possono fare altro che annuire complici. Anche perché pure loro due si sentono in cima al mondo. Quello che la sera prima son stati in grado di creare è un amalgama molto denso, rock con molte reminiscenze anni Settanta, sia sul piano musicale che politico, e un paio di licenze a quelle ballate già destinate all’eternità.
Ecco, immaginatevi quarantenni, “in mezzo del cammino di vostra vita”, con il concerto dei sogni alle vostre spalle e il mondo ai vostri piedi. In molti degli attuali quarantenni i Pink Floyd li hanno scoperti così, grazie a Venezia 1989. Personalmente dopo una settimana dissi a mia madre che, con molta calma, avrei voluto comprarmi l’intera discografia dei Pink Floys, ed è la prima promessa che abbia mantenuto, magari la più facile, sicuramente la più sensata. Fran Tomasi, che con quel concerto ci rimise la carriera, un anno dopo tappezzò la città di manifesti con le gondole, le barche, la folla, i riflessi colorati sulla laguna, i palazzi e i monumenti splendidamente illuminati dalle luci del palco in acqua, e la scritta “Mai più così”. Chapeau.
Scaletta del concerto a Venezia:
Shine On You Crazy Diamond (Part I-V)
Learning to Fly
Yet Another Movie
Round and Around
Sorrow
The Dogs of War
On the Turning Away
Time
The Great Gig in the Sky
Wish You Were Here
Money
Another Brick in the Wall (Part 2)
Comfortably Numb
Run Like Hell