Sanremo 2021, tutti vogliono essere Achille Lauro | Rolling Stone Italia
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Sanremo 2021, tutti vogliono essere Achille Lauro

Ai tempi di ‘Rolls Royce’ era l’outsider, il provocatore, l’elemento di rottura. Adesso, invece, lo inseguono tutti: Fiorello, gli ospiti e persino i campioni in gara. È questo il nuovo standard del pop italiano?

Sanremo 2021, tutti vogliono essere Achille Lauro

Achille Lauro

Foto: Jacopo Raule / Daniele Venturelli/Getty Images

C’è un momento preciso, nel Sanremo appena finito, che descrive bene come certi rapporti di forza all’interno della carriera di Achille Lauro e, in generale, nel nostro pop siano ormai capovolti dopo questi “quadri”. Siamo nel terzo capitolo del suo show dell’intervallo, quello del giovedì, e lui – conciato da statua, stile mitologico, su introduzione di Monica Guerritore – canta Penelope, il pezzo del 2018 che chiude Pour l’amour, il suo ultimo disco di strada, (in parte, ancora) samba-trap, della “gavetta” prima della svolta e dei numeri di Rolls Royce. È l’unico brano di quella fase di carriera che ha portato all’Ariston da resident, ed è una ballad intima, persino tradizionale, che racconta un amore sospeso fra il metropolitano e i Classici e che pure – per tragicità, melodia, intensità – è superiore alla gran parte del repertorio successivo. Ma tant’è: il modo di porsi è sempre languido, mentre parla di una donna che «chiude le tende che vuole scopare» e un cuore che «diventa piccolo più noi cresciamo». Ecco: per l’occasione a duettare c’è Emma, che ok, negli ultimi tempi sta cercando di svincolarsi da un certo mainstream da talent che l’ha formata, ma resta comunque un’icona – il personaggio, le canzoni – di quel mondo lì. E beh, nonostante le differenze, lei è più emozionata di lui.

Che significa? Che i quadri di Lauro hanno segnato la sua consacrazione definitiva nel pop italiano: ha vinto lui; ora si gioca alle sue regole, e tutti ne riconoscono il talento anzi ne vogliono (o ne hanno voluto, quando si è organizzato lo show) una parte per loro, e se proprio non era una novità assoluta (le collaborazioni ampie, negli ultimi tempi, non sono mancate) adesso comunque l’Italia tutta lo sa, l’ha visto in prima serata. Perché il cast che in questi giorni ha preso parte alla sua giostra è laminato di nomi di uno star system fino a due anni fa a distanza siderale da Lauro, che si tratti del Fiorello co-conduttore, in gioco con trucco e corona di spine, o degli ospiti Francesca Barra e Claudio Santamaria che ballano il twist in stile Pulp Fiction mettendo in scena Bam bam twist. Non sempre gli spettatori si divertono, anzi: qua e là è arrivato qualche sbadiglio, e non tutte le esibizioni sono state all’altezza delle aspettative pompatissime dallo stesso protagonista (la prima, Solo noi, grida vendetta: idee, sì, confusissime); ma più che una forma di intrattenimento inattaccabile, questi quadri rappresentano uno statement.

E cioè: il palco dell’Ariston come giardinetto. Perché va bene, sarà servito pure l’invito e il placet di Amadeus, ma è chiaro che la direzione artistica volesse che lui si prendesse più libertà possibili in quei cinque minuti abbondanti di show. Tradotto: Lauro ha cominciato mandando mail ai giornalisti per anticipare ogni volta, con la sua dialettica, il set di quella sera; poi, sul palco, ha portato all’estremo, coerentemente, la mistica che abbiamo imparato ad associare comunque solo al suo personaggio, fra spiegoni iniziali e trovate di scena (le rose dell’ultima sera), inni al godimento e all’amore libero, promiscuità sessuale, fluidità di genere, travestimenti più o meno iconoclasti (Mina), turismo di genere, invocazioni religiose e ai ragazzi madre con tanto di assoluzioni verso chi “sbaglia”. Il tutto, ovviamente, dentro performance curatissime nell’estetica prima anche che nella tecnica, con una bignami di riferimenti ogni volta diversi.

In sintesi, art-pop, certo non militante né impegnato per definizione – il tutto è troppo ego-riferito e provocatorio per esserlo – ma lo stesso zeppo di (bei) messaggi, fra inclusione, riapertura dei teatri e il bacio in bocca a Boss Doms nella rimpatriata da vecchi soci di venerdì. E ripeto: a volte, come sempre ultimamente, Lauro sembrava un po’ parlarsi addosso, persino ripetersi, perdersi in una forma manieristica, ma proprio questo tipo di eccessi ne descrivono meglio il senso di onnipotenza che l’ha animato nei confronti di quel palco – e che poi è l’aspetto più, boh, punk dell’operazione. Del tipo: ti prendo attori che fino a ieri mi disconoscevano e te li faccio ballare sui miei pezzi, ti suono il mio repertorio in prima serata, ti racconto la mia storia e la mia mistica mentre tutto intorno è comunque una gara, ma non fa niente, per me fermate tutto; e chi altri, col percorso e l’età giovane di Lauro, può permetterselo? Ecco: questo per dire che lui, in cinque atti, è entrato definitivamente e a modo proprio nello star system italiano.

Però, c’è un “però”. Che non sarebbe neanche tale, se non fosse che parliamo di Achille. E cioè: in questo Sanremo, ci stava benissimo. Chiaro, come dicevamo qualcuno si è incazzato di fronte a (ehm) provocazioni come lacrime di sangue e omoerotismo, ma come dice La Rappresentante di lista da certe persone, purtroppo, c’è da aspettarselo, ergo non parliamo certo di un live incendiario solo perché uno come Pillon abbia gridato allo scandalo. Al di là di ciò, sui social è un trionfo di cuori in preventivo e qualche sbadiglio. Sorprese: pochissime. Infatti, al contrario di quando nel 2019 si era presentato con Rolls Royce, già dallo scorso anno con Me ne frego (perlomeno dalla seconda serata, s’intende), il pubblico ha iniziato ad abituarsi. Certo, mettiamoci pure che intanto è cambiato anche il Festival, visto che questa è stata l’edizione della stessa Rappresentante di lista, dei fiori e del resto; ma è inevitabile che Lauro, anche spingendo sull’estetica, della personalità (che trabocca e non sempre nel modo più lucido, ma comunque c’è) e della performance pruriginosa a 360 gradi, non rappresenti più l’elemento di rottura che era in origine.

A livello musicale (dove ha osato pochissimo), e in riferimento a contesto che l’ha inglobato senza troppi problemi. Insomma, in questo Sanremo non ha mai suonato davvero nuovo, oltraggioso, rivoluzionario. È una certezza, Lauro. Di più: questi cinque quadri hanno certificato come da un po’ sia diventato proprio lui, il nuovo standard a cui abituarsi. Missione compiuta, quindi. Ha vinto lui. O no?