«Il take buono non arriva fino a quando Keith non guarda Charlie e si avvicina a lui, e Bill si alza dalla sedia. Quello è il momento in cui si trasformano nei Rolling Stones» dice Andy Johns, il tecnico del suono che ha registrato la maggior parte di Exile on Main Street. «Tutto il resto è da buttare. Ma se Bill si alza dalla sedia e Keith guarda Charlie, capisci subito che stanno arrivando. Si passa da: “Che diavolo è questa roba?” a “Che figata!”. È un’esperienza fuori dal mondo».
Andy Johns ha registrato e prodotto più di 200 album, tra cui diversi che sono andati al numero uno in classifica, da Led Zeppelin IV a IV dei Godsmack, ma in realtà non è mai uscito da quella cantina soffocante nel sud della Francia in cui era chiuso insieme a Keith Richards, Mick Jagger, Mick Taylor, Bill Wyman e Charlie Watts, ancora giovani e snelli, sempre sudati e a torso nudo, a macinare versioni imperfette e scordate di canzoni una dopo l’altra, aspettando il momento in cui all’improvviso si materializzavano i Rolling Stones. Ma anche gli stessi Rolling Stones non ne sono mai usciti.
Possiamo soffermarci in un’altra occasione a discutere se Exile on Main Street sia o non sia l’album migliore nella storia del rock & roll. La cosa certa è che questo album così provocatorio ed aspro, a volte deprimente e a volte esuberantemente sfacciato, è l’album più rock & roll nella storia del rock & roll. Quello che si avvicina di più alla realizzazione della sintesi ideale tra blues, country e R&B. L’ossessione degli Stones verso Exile è finita quando è cominciata quella degli altri, ovvero quando è stata mixata l’ultima traccia. Da tempo sono stufi di parlarne.
Sono stati disponibili a promuovere questa nuova uscita discografica così ricca e così rivolta verso il passato ma non provate a chiedere a Mick Jagger perché i fan e i critici sono così fissati su questo disco: «Credo rappresenti tante cose diverse per le persone, ma non so dire perché» dice Jagger, «La gente apprezza molto l’ampiezza di questo disco, la diversità di stili, le parti più stravaganti, il suono grezzo. Chi può saperlo? Piace per molti motivi diversi. È un album molto vasto, quindi credo che ogni volta che lo ascolti puoi trovare delle piccole chicche che non avevi sentito prima. Può essere?».
Keith Richards, sempre pronto a regalare una citazione memorabile, dice che la ragione principale per la quale hanno tirato fuori e ripulito gli outtakes è stata: «Non ridipingere il sorriso della Mona Lisa. È un lavoro unico, fatto in un unico posto e deve suonare in quel modo». Alcuni pezzi che sono finiti nella versione originale di Exile, Shine a Light, Sweet Virginia e Stop Breaking Down sono stati registrati agli Olympic Studios di Londra durante le session degli album precedenti Let It Bleed e Sticky Fingers. Ma i pezzi che definiscono il disco, ovvero Tumbling Dice, Happy, Rocks Off, sono nati tutti nella villa affittata da Keith Richards a Villefranche-sur-Mer, nella Costa Azzurra francese, dal giugno all’ottobre del 1971.
Se ancora oggi Exile è un disco difficile che devi avere il coraggio di affrontare (Don Was, produttore degli Stones dal 1993 ammette che: «Oggi è molto più facile avvicinarsi a Let It Bleed»), molto si deve alle circostanze in cui è stato registrato. Richards parla del periodo di Nellcòte come di «Una lotta per rimanere vivi». Senza ombra di dubbio gli Stones hanno lasciato che qualsiasi tipo di ansia e miseria personale e collettiva si facesse largo nelle tracce del disco.Nonostante tutta la loro spavalderia e spensieratezza, nell’estate del 1971 gli Stones erano con tutta probabilità un gruppo di giovani uomini in stato di shock. Nel 1967 Jagger e Richards vengono arrestati per possesso di droga per la prima volta, poi la band si libera dal suo primo mentore e produttore, Andrew Loog Oldham e Richards inizia una relazione con Anita Pallenberg, l’ex fidanzata di Brian Jones, fondatore e un tempo leader della band. Nel 1969 costringono Jones, che ha contribuito pochissimo agli ultimi album ad andarsene e lo sostituiscono con Mick Taylor, ventenne fenomeno della chitarra proveniente dai Bluesbreakers di John Mayall. Poco dopo, Brian Jones viene ritrovato morto annegato nella sua piscina. Nella primavera dello stesso anno, all’Altamont Speedway in California, gli Hell’s Angels pugnalano a morte un uomo mentre gli Stones continuano a suonare Under My Thumb.
Nel 1971 hanno un album al numero uno in classifica, Sticky Fingers ma si rendono conto di colpo che nonostante i numeri esorbitanti delle vendite dei loro dischi e il livello di vita da signori al quale sono abituati sono completamente al verde. A causa della disastrosa gestione del loro manager Allen Klein, ognuno di loro (tranne Mick Taylor che è appena arrivato) deve al fisco 100.000 sterline di tasse arretrate. Si sono già separati da Klein ma lui ha vinto i diritti sulle vendite del loro catalogo fino al 1970. Il livello di imposizione fiscale in Inghilterra è talmente alto che gli Stones non hanno nessuna possibilità di riuscire a saldare il loro debito con i nuovi guadagni, quindi prendono una decisione: lasciare il loro paese e trasferirsi in Francia. Perché la Francia? Principalmente perché è vicina e ha una legislazione fiscale più morbida. Poco dopo il trasferimento, Mick Jagger sposa la modella di origine Nicaraguense Bianca Pérez Morena de Macias con una cerimonia a Saint-Tropez in cui nessuno degli Stones a parte Keith Richards viene invitato.
Nello stesso periodo, Richards e Anita Pallenberg si rinchiudono nella villa di Nellcòte con il figlio Marlon e diventano il Signore e la Signora del disordine e del caos. Poco a poco arrivano tutti gli altri: Bill Wyman a Grasse, Mick Jagger a Biot e Charlie Watts, che non ama la Costa Azzurra, in una fattoria a sei ore di distanza. Si mettono subito a cercare uno studio per registrare il seguito di Sticky Fingers, uscito in aprile, proprio mentre loro lasciavano l’Inghilterra. «Abbiamo dovuto mollare tutto, i posti che conoscevamo e dove eravamo abituati a lavorare» ricorda Richards, «Boom, fuori. Come facciamo a rimettere tutto in piedi? Pensavamo che a Cannes o a Nizza o a Monte Carlo o a Marsiglia ci fosse almeno uno studio di registrazione decente. Invece niente. C’erano, ma erano pieni di questi tizi che stavano lì a registrare jingle in francese per non so che cosa. Per farla breve, un giorno ci siamo ricordati che avevamo uno studio di registrazione mobile montato su un camion». Lo hanno già usato per registrare alcune parti di Sticky Fingers, quindi perché no? «A quel punto si sono girati tutti verso di me pensando alla mia cantina. La maggior parte del disco è nata a Nellcòte, giù nel bunker. Praticamente io vivevo sopra alla fabbrica. E che fabbrica».
La mitologia di Nellcòte, le leggende sui privilegi decadenti e i piaceri proibiti, tra cui l’uso di eroina da parte di Richards e le suggestioni della sinistra storia della villa stessa hanno inevitabilmente condizionato la risposta del pubblico a Exile. Richards conferma ancora oggi che quella maestosa casa del 1890 con le colonne, gli specchi e le tende bianche a sbuffo era stata il quartier generale della Gestapo durante la Seconda Guerra Mondiale. Le uniche prove sono le voci che circolavano e le svastiche che Richards e Johns dicono di aver visto nella sala caldaie. La stanza in cui dormiva Charlie Watts, ricorda Johns: «Sembrava la stanza di una prostituta d’alto bordo, tutta decorata di rosa e con un letto enorme. In effetti mi ricordo che mi sono fatto una tipa lì dentro e sono stato anche scoperto dagli altri». La casa era sempre piena di gente, da Gram Parsons che era troppo devastato persino per loro ed è stato invitato ad andarsene a personaggi del posto egualmente loschi. «Li chiamavamo i cowboy» ricorda Johns, «Ce n’erano quattro o cinque che andavano continuamente avanti e indietro a fare movimenti, capisci che intendo?».
Era molto buio e polveroso in quella cantina. Un’atmosfera hitleriana, da ultimi giorni di Berlino
Ad un certo punto si devono fermare perché qualcuno ha rubato un intero set di chitarre. «Siamo nel sud della Francia, che altro ti puoi aspettare? Voglio dire, la gente qui rapina i Casinò!» dice Richards, «Le ho recuperate quasi tutte quelle chitarre. E ho anche beccato il tipo che le aveva fregate. Ma questa è un’altra storia». Fa un sorriso da pirata e aggiunge: «Diciamo che non è più in giro». Eroina e svastiche! Ricchi spendaccioni e feccia criminale! Ragazze disponibili e Anita Pallenberg in bikini leopardato! («Non se l’è mai tolto» dice Johns, «Per due mesi»). L’opulenza drogata di Nellcòte si adatta perfettamente al suono sporco ed oscuro di Exile, alla sua atmosfera sexy e minacciosa e a testi come quello di Rocks Off: “Prendimi a calci come hai fatto prima / Non sento più neanche il dolore”.
Oggi, molti anni dopo, le rockstar che si drogano non fanno più scandalo. In base agli standard di decadenza dei video rap di oggi, Nellcòte sembra quasi un posto tranquillo. La riedizione di Exile, allora, potrebbe essere l’opportunità di ascoltare l’album per quello che in fondo è sempre stato: non solo un capolavoro ma anche un lavoro di valore assoluto nato in circostanza incredibilmente avverse. «Mancava l’aria là sotto» dice Johns a proposito della cantina di Nellcòte, «C’era un piccola presa d’aria nella finestra nell’angolo che girava circa 20 volte al minuto. Era orribile». E buio.
«C’era un’atmosfera strana» ricorda Richards, «Ed era veramente molto buio e polveroso. Io e Mick ci avvicinavamo l’un l’altro cercando di vederci qualcosa in mezzo a tutta quell’oscurità: “Ok, in che tonalità sei?”. Un’atmosfera Hitleriana, da ultimi giorni di Berlino». La cantina è divisa in piccole stanze, la band sposta gli strumenti e gli amplificatori da una all’altra cercando il suono più interessante. «Keith e Mick avevano dei favolosi amplificatori Ampeg da 300 watt con casse da dodici pollici. Il volume era altissimo, ho dovuto costruire delle casse di legno intorno ad ognuno dei due amplificatori». Nonostante i tentativi di deviare il suono e le stanze separate il suono è durissimo e sembra colare come sangue da una traccia all’altra, il che rende il mix ancora più difficile. Bob Clearmountain, che ha remixato la nuova ristampa dice che sotto le tracce di chitarra si sente ancora l’eco di vecchie parti vocali. Mente la band suona sottoterra lo studio mobile con le apparecchiature per registrare è parcheggiato fuori, ricoperto dalle foglie. «L’interfono non funzionava e io ogni volta dovevo schizzare fuori dal camion, entrare in casa, corriere in corridoio scendere le scale, ovviamente a chiocciola, e gridare: “Ragazzi, ragazzi! Stop! Stop!”» dice Johns. Ma almeno questo è un intoppo prevedibile. L’elettricità non lo è altrettanto.
«Qualcuno ha avuto la brillante idea di far risparmiare soldi a Keith e di attaccarci alla corrente in strada in modo che non risultasse nella bolletta della casa». Un aneddoto che illustra perfettamente la follia totale della situazione a Nellcòte. Richards pagava circa 1000 sterline a settimana per quella villa. L’unica cosa che non è nuova per i Rolling Stones sono le registrazioni notturne. «Di solito cominciamo a registrare con le migliori intenzioni» dice Charlie Watts, «Che poi sono le intenzioni di Mick. Passano due o tre giorni, lavoriamo fino alle due o tre di notte, il mattino dopo Mick arriva come sempre presto e Keith invece si fa vedere molto più tardi. Due settimane dopo Keith non si presenta prima delle otto di sera. E a quel punto vai avanti così».
La giustificazione di Richards è così disarmante da rendere immediatamente chiaro perché i Rolling Stones sono riusciti ad andare avanti per 40 anni. Oltre al fatto che senza la sua chitarra non esistono i Rolling Stones. «Non è che sono arrogante o cose del genere. Stavo solo dormendo». Uno dei pezzi più grandi di Exile però nasce quando non c’è nessuno tranne lui. «Mi è venuta un’idea ma ero solo. I primi ad arrivare sono stati Bobby Keys con il suo sax e poi Jimmy Miller». Miller, che non è solo il produttore del disco ma anche un ottimo batterista, si siede dietro alla batteria di Charlie Watts e in un attimo viene fuori la base di Happy. «Quando si sono presentati gli altri l’avevamo già quasi finita» dice Richards. Non sempre le cose vanno così bene.
Un altro pezzo simbolo del disco, Tumbling Dice, ha richiesto molto più tempo: «Ci saranno almeno 30 nastri con su Tumbling Dice» dice Johns, «Un giorno Keith ha passato sei ore a suonare solo la seconda strofa in continuazione, una volta dopo l’altra». Richards non è l’unico ad essere confuso da quel pezzo: «Charlie ha avuto difficoltà a suonare la parte finale» dice Johns, «Sai quando la sezione ritmica si ferma prima della coda finale? Charlie aveva una specie di blocco mentale, non riusciva a farlo». Jimmy Miller si siede per la seconda volta dietro alla sua batteria. Nella versione di Tumbling Dice che finisce sul disco c’è Charlie Watts fino al momento in cui la sezione ritmica si ferma, poi Jimmy Miller per tutta la maestosa coda finale. Non esiste una descrizione migliore di questo pezzo di quella fatta dal chitarrista John Perry nella sua analisi traccia per traccia di Exile scritta nel 1999: «Il rientro di batteria mette tutto il grande edificio in movimento, come un transatlantico che finalmente si stacca dalla banchina ed entra in acqua».
Secondo Miller, Exile è: «L’album di Keith». I momenti di chitarra più indelebili, quell’intro così insopportabilmente triste di Tumbling Dice, l’assolo ritmato e di Happy con quel suono così supplicante e penetrante, sono tutta opera sua. Mick Taylor non ha mai avuto l’opportunità di far vedere di cosa era capace, come aveva fatto nella lunga coda di Can’t You Hear Me Knocking su Sticky Fingers. L’unica cosa che fa è rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro su Rocks Off mentre il pezzo sfuma. Richards adorava suonare con Taylor: «Prima eravamo io e Brian, poi lui è diventato sempre più difficile. Soprattutto dopo che gli ho rubato la ragazza, come potete immaginare! Con Mick Taylor ho dovuto inventarmi un nuovo modo di suonare. C’era una separazione più netta tra chitarra solista e ritmica. Con Brian non c’era, ci scambiavamo i ruoli continuamente. Mick era un vero virtuoso, io invece ero piuttosto grezzo, così gli dicevo: “Hey bello, io faccio gli accordi, il ritmo e il riff. Tu tira fuori qualcosa”. Continua a sorprendermi ogni volta che lo ascolto. Se fosse per me lui sarebbe ancora nella band».
Gli Stones lasciano la Francia nel novembre del 1971. La lunga estate è finita e il posto comincia a scottare. Un anno dopo, il Times of London riporta la notizia di “Tre giovani francesi che secondo la polizia hanno fornito ai Rolling Stones e al loro entourage 50 grammi di eroina a settimana durante quell’estate” che si presentano in tribunale a Nizza per raccontare la loro storia. Richards e Pallenberg vengono condannati in contumacia (la pena viene poi sospesa) per possesso e traffico di cannabis. La band si trasferisce a Los Angeles per registrare alcune parti vocali di Jagger, i cori e le parti strumentali (eseguite da musicisti di grande livello come il contrabbassista Bill Plummer e il tastierista Billy Preston) e per fare il mix definitivo, che si rivela l’impresa più faticosa. Il risultato non è quello desiderato. A Miller non è mai piaciuto il suono grezzo dell’album e anche Jagger ha espresso il suo disappunto.
Se invece preferite il verdetto della storia il risultato è perfetto. «Secondo gli standard della produzione discografica le tracce vocali sono assurdamente basse. Prendiamo Tumbling Dice, sono ad un livello ridicolo. Veramente ridicolo. Eppure è una delle canzoni più grandi mai registrate nella storia del rock & roll» dice Don Was. Nel 2003 Jagger diceva che gli sarebbe piaciuto remixare l’album: «Non solo per le parti vocali, ma perché in generale il suono fa schifo». Oggi invece sembra essersi rassegnato: «C’ero io in quello studio, quindi la colpa è mia più che di chiunque altro. Se vuoi che la voce sia più alta allora tanto vale metterlo su iTunes e lasciare che la gente se lo remixi da sola». Johns, che era dietro al mixer, si è reso conto che aveva per le mani un gran pasticcio: «Non voglio dire che ho registrato male le tracce, ma diciamo che il suono era molto inusuale. E Mick mi faceva saltare i nervi. Una volta ho detto: “Senti, amico, non ho assolutamente idea di come suonerà in radio”. E lui mi ha risposto: “Bè, facciamolo passare in radio”. Ha affittato una limousine con il telefono, una fottuta Cadillac enorme. Mi sono ritrovato lì con Mick Jagger, Charlie Watts e Keith Richards e tutta la responsabilità sulle mie spalle perché ero stato io a tirare in ballo le radio. Mick ha preso il telefono e ha detto: “Ok, adesso gli diciamo di farla passare in radio”. All’improvviso si è sentito il Dj dire: “Hey ragazzi in ascolto, abbiamo una sorpresa per voi” e blah blah blah. Credo fosse All Down the Line. Quando è finita, Mick mi ha guardato e mi ha detto: “Cosa ne pensi?”. E io: “Non saprei”. Lui ha ripreso il telefono: “Facciamogliela suonare ancora. Il volume è questo, vero?”».
Alla fine Jagger gli ha detto: «Ne ho abbastanza di questo fottuto disco. Questi sono i nastri, questo è il mixer. Hai due giorni di tempo». «Ho lavorato due giorni senza fermarmi e remixato tutto io». Il risultato parla da solo: forte e chiaro. O perlomeno forte. Il materiale inedito che è uscito in alcuni bootleg sconosciuti come Taxile on Main Street dimostra che non sempre gli Stones sono stati così bravi. Quando non erano nella situazione giusta sembravano una banda di incapaci che improvvisava in una cantina. Ci devono essere state ore ed ore, giorni e giorni interi di noia e disperazione. Ma a quanto pare questo è il modo in cui avevano bisogno di lavorare: vagare nel buio in cerca di una sensazione magica. Quando erano a Nellcòte hanno perso troppo tempo a sballarsi e non combinare niente di buono? Come si fa a determinare cosa è troppo? E poi di chi era quel tempo? In definitiva quello che sono riusciti a fare, nientemeno che la quintessenza del disco rock&roll, avrebbe dovuto mettere tutti a tacere. Cosa che ovviamente non è mai successa.