Le parole sono importanti. A pensarlo non è solo Nanni Moretti in una scena di Palombella Rossa. Chi più chi meno, prestiamo tutti sempre la massima attenzione ai termini che usiamo. Affinché i nostri interlocutori possano comprenderci, o persino ammirarci. Per questo assai difficilmente nei nostri discorsi e nei nostri scritti andremmo di proposito a calpestare una merda. Ça va sans dire. Quando succede, se succede, solitamente si tratta di uno scivolone, di un’uscita infelice dettata da fattori contingenti. La rabbia di sicuro fa straparlare, la fretta si dice sia cattiva consigliera, l’amore di certo può creare vari blackout comunicativi, oltre che imprevedibili balbuzie.
Tuttavia, come spesso succede, nulla supera la sfiga. Ne sa qualcosa il collega che incominciò con “un album di solido classic Bowie che testimonia, dopo tante voci, l’intonso stato di salute dell’uomo e dell’artista” l’analisi di Blackstar nel gennaio del 2016. E ne sa qualcosa il tale che trent’anni prima, nel 1986, parlando di The Final Countdown degli Europe scrisse “di sicuro con queste tastiere l’hard rock svedese ha i giorni contati”. Ma per la tempistica, la prontezza di riflessi, la delicatezza delle parole e la sagace scelta dell’esempio, la mia personale statuetta per il miglior “Che Cazzo Sto Dicendo Award” goes to Jon Savage.
Quello che poi ebbe modo di rifarsi in lungo e in largo, diventando una delle firme più celebri tra i critici dell’epopea punk, recensendo Unknown Pleasures dei Joy Division nell’estate del 1979, iniziò così: “Parlare oggi di vita è come parlare di corda a casa dell’impiccato: non si sa mai come possa finire”. Neanche un anno dopo, una domenica mattina del maggio 1980, il cantante della band, il ventitreenne Ian Curtis, veniva trovato morto: si era impiccato alle travi della cucina di casa sua, al 77 di Burton Street a Macclesfield. Sipario. Buio.
Ma torniamo all’inizio. Le parole sono importanti, dicevamo. E Unknow Pleasures ne è pieno. Ma cosa si può dire che l’attento orecchio da solo non colga porgendosi a quei solchi, a quei 10 brani che incendiarono il mese di giugno di quarant’anni fa? Divisi in due lati speculari e antitetici, Inside e Outside, come recita la mia consunta copia in vinile, divorata dal lungo palpare di polpastrelli alla ricerca di qualche messaggio recondito tra le pieghe della copertina o tra le righe dei crediti o nei testi, l’indimenticata e inquieta anima del compianto Curtis ci ha lasciato testi di incredibile impatto emotivo. Permeati da una sottile filigrana letteraria.
Non solo qui, ma in tutto il suo breve percorso artistico. Dalle sofferte liriche di William Wordsworth all’Interzone di William S. Burroughs, dalla colonia penale di Franz Kafka al filone dello sci-fi inglese di I Remember Nothing, si apre una fitta rete di citazioni letterarie. Il brano Atrocity Exibition deriva dal titolo di una raccolta di novelle di James Ballard, così come Dead Soul rimanda apertamente al più celebre romanzo dello scrittore russo Nikolaj Gogol. Unknown Pleasures è una pietra miliare perché traghetta il senso di distacco e lo legittima agli occhi dei punk attraverso un sound che risulta nuovo. Unico, come la copertina con la rappresentazione di cento impulsi consecutivi della prima stella pulsar mai scoperta.
Quelle liriche sono un brivido freddo lungo la schiena di chi poco prima pogava ai concerti dei Pistols e dei Damned, fottendosene della loro supposta potenza detonatrice sociale e politica. Con Unknown Pleasures e le sue liriche ai limiti del filosofico (come l’esistenzialista “Where will it ends?” che sentiamo in Day of the Lord) nasce la consapevolezza di un dopo. Non è un caso che il genere da qui nato si chiamerà post punk, non gothic e nemmeno dark. L’ascolto si fa ansioso, per non dire epilettico (“But I don’t care anymore / I’ve lost the will to want more” da Insight). Di sicuro disagiato e disilluso (pensate ai “Feeling feeling feeling” in Disorder), nel modo che traspare dalle rare parole di Ian: “Ho lavorato in fabbrica, ero felice. Era un lavoro macchinoso ma non avevo pensieri. Sognavo il weekend, a quali LP comprare e quali libri leggere. Puoi vivere bene anche nel piccolo mondo che ti crei in testa”.
Del resto era stata l’algida fierezza della sua voce e la forza tragica e annichilente delle sue poesie (“Vorrei essere uno schermo serico di Warhol appeso al muro o il piccolo Joe o magari Lou, mi piacerebbe essere tutti loro, tutti i cuori infranti di New York e i segreti mi apparterrebbero e ti metterei nella pellicola di un film e sarebbe bellissimo”, parole da Curtis scritte secondo lo stile beat e quella che viene chiamata enumerciòn caòtica già nel 1973) a trasformare gli ex Warsaw in Joy Division. Come non c’è nessun dubbio che la sua persona abbia rappresentato un’ineludibile stazione del male di vivere dei ragazzi inglesi di fine Ottanta. Fin dal nome, il marchio di infamia con cui i nazisti bollavano le detenute dei lager costrette al loro “gioioso” intrattenimento sessuale.
Stupisce allora apprendere che il bassista Peter Hook, intervistato da NME nel 2009, abbia detto: “Non conoscevo le liriche di Ian semplicemente perché nella maggior parte dei casi non riuscivo a sentirle. Poteva cantare di cerchi immaginari così come della vicina di casa, ma ci metteva tanta di quella passione che la cosa contava poco. Quando le ascoltai per la prima volta è stato uno choc: erano bellissime. È stato solo dopo che Ian è morto che con gli altri della band ci siamo messi a leggerle con attenzione. Ma a quel punto era troppo tardi”. Com’è possibile? Eppure, per quanto assurdo possa sembrare, è andata proprio così.
Lo stesso Hook, intervistato nell’agosto del 1979 da Paul Rambali di Melody Maker, mischiava le carte della sua ignoranza così: “Quando diciamo che le canzoni dei Joy Division hanno un significato più profondo per noi, le persone non capiscono cosa intendiamo e vogliono saper di cosa parlino nello specifico. Ma se tu vedi un quadro di Max Escher pensi a cosa significhi o lo guardi e basta? Non vogliamo dire nulla. Non vogliamo influenzare la gente. Non vogliamo che la gente sappia cosa pensiamo”. Ian Curtis, dal canto suo, nella stessa intervista, si dimostra l’opposto di come appariva sul palco. La sua voce, a detta di Rambali, era alta e barcollante, per nulla profonda o risoluta, vittima di una timidezza tale da non volere né confermare né smentire l’idea esposta dall’ingombrante e incredibilmente distratto bassista.
O forse è stato meglio così? Perché, come scrisse il critico Paul Marley nel febbraio del 1980, ci sono pochi gruppi che hanno potuto godere di un seguito così tenace e ampliato nel tempo, come la meteora Joy Division. Trascinata dallo spirito intenso di Ian Curtis e dalla toccante musica di Peter Hook, con Bernard Sumner alla chitarra e Stephen Morris alla batteria, ma pure dal profondo alone di mistero che ne ha permeato l’esistenza fino a renderli negli anni una sorta di mistica reliquia. Un vero e proprio mito adagiato a quello dei Doors o dei Velvet Underground.
Non è un caso se tra i gruppi del cuore del giovane Ian Curtis comparivano i Nectar, di cui sfoggiava una t-shirt in una foto del 1975 e da cui prese ispirazione per la suddivisione dei lati di Unknown Pleasures (dal loro Journey to the Centre of the Eye del 1971). Loro si dilettavano in un rock psichedelico ed erano poco inclini a rilasciare interviste e a farsi fotografare, proprio per l’idea di conferirsi un’aurea ascetica e impenetrabile. Comunque sia andata, a noi resta Unkonwn Pleasures (la cui ristampa per Warner uscirà il 14 giugno, a 40 anni esatti dalla pubblicazione, sarà in vinile rosso con una nuova copertina bianca ispirata all’originale): una fiamma fuggevole e intensa, in cui la somma delle parti è infinitamente più grande dei singoli addendi e i testi di rara poesia fissano un qui e ora sconvolgente e futuribile per ogni epoca.