Nell’estate del 1968 Van Morrison era un rifugiato del rock & roll, un poeta irlandese in fuga dalla sua terra dopo un breve flirt con la vita da popstar. Si agitava avanti e indietro per le strade di Boston, dove ha scritto le canzoni che avrebbero dato vita a uno dei capolavori del rock, Astral Weeks. Poi se l’è svignata con la stessa rapidità con cui è arrivato. Astral Weeks è un album misterioso, insolito rispetto al resto della sua discografia – o di quella di tutti gli altri. Non vendette granché, per anni è stato quasi introvabile. Ma oggi, a 50 anni dalla sua nascita, vive ancora. Il momento in cui Morrison canta “You breathe in, you breathe out” riassume il suono del disco – un groove acustico intonato con una sorta di vibrazione cosmica.
Astral Weeks: A Secret History of 1968, il nuovo libro di Ryan H. Walsh, svela il dove e il quando di quella musica. Morrison si è sempre rifiutato di svelare i misteri di Astral Weeks – il bardo celtico è un tipo testardo, non si sbottona facilmente. E non importa quanto siate esperti della sua vita o della sua musica, Astral Weeks è un libro pieno di misteri da scoprire. All’inizio del libro Van si ritrova nella scena underground di Boston, circondato da personaggi bizzarri: Mel Lyman, l’armonicista diventato leader di un culto di fanatici strafatti di acidi; Lou Reed, spesso da quelle parti, studiava rituali con Jonathan Richman e i suoi amici. Walsh è riuscito a raggiungere anche Janet Planet, la “sposa di fiori” di Morrison: «Essere una musa è un lavoro per cui non vieni mai ringraziata, e la paga è uno schifo».
Morrison era scosso dagli anni passati nella scena rock irlandese, quando dominava Belfast con i Them e il successo di Gloria. Sotto il nume tutelare del manager Bert Berns (lo stesso che ci ha regalato Neil Diamond), è partito per New York, dove ha registrato la hit Brown Eyed Girl, ancora in rotazione perpetua nel centro commerciale della tua città. Berns considerava il suo protetto come “la versione rock & roll del poeta irlandese Brendan Behan”. Dopo la sua morte, però, Morrison si è ritrovato nelle mani della mafia. I suoi nuovi capi non avevano nessuna sensibilità per le sue ambizioni creative. Uno di loro, Carmine “Wassel” DeNoia”, spiega perché Van Morrison se ne andò da New York: «Gli ho sfasciato la chitarra in testa».
Fuggì a Boston, la vera star del racconto di Walsh – una città sommersa da studenti, freak della musica, artisti fattoni e aspiranti messia. Una grossa sezione del libro è dedicata a Mel Lyman, un guru noto all’epoca ma dimenticato al giorno d’oggi – una cover story di Rolling Stone del 1971 parlava del suo gruppo come la risposta East Coast alla Manson family.
Poi, un’altra figura carismatica della scena: Lou Reed, eroe locale ad honorem. Il leader dei Velvet Underground era più popolare lì che nella sua New York; solo nel 1968 si è esibito a Boston 15 volte. Prendete il retro di White Light / White Heat: la band posa di fronte al loro “luogo di culto spirituale”, il Boston Tea Party. Lou ha sempre raccontato con candore dei suoi interessi verso l’occulto, soprattutto per il volume di Alice Bailey del 1934, A Treatise on White Magic. La sua copia è finita nelle mani di un fan, il 16enne Jonathan Richman, che oggi ricordiamo come il pioniere-punk che ha firmato Roadrunner e Astral Plane.
Questo è l’orizzonte dove Van si è esiliato nel 1968 – beveva troppo, chiedeva di passare vecchi blues durante la trasmissione notturna di Wolf, scriveva i bozzetti in poesia di Astral Weeks. Insieme a una band di ragazzini cercava di suonare in giro, si esibiva in piste da pattinaggio e sale da palestra. Poi il pasticcio con la mafia che continuava a perseguitarlo. Joe Smith di Warner Bros racconta a Walsh come ha fatto a liberare Morrison: si è presentato in un vecchio magazzino con una borsa, all’interno 20mila dollari in contanti. «Ho risolto la questione e sono volato via da quel posto, avevo paura che qualcuno potesse sfasciarmi la testa».
Non potevamo avere problemi con Van, anche perché non ci ha mai rivolto la parola
Una notte, finalmente, Morrison è tornato a New York e ha portato le sue canzoni in studio di registrazione. Insieme a lui un gruppo di super-jazzisti che di lui non sapevano nulla. Pensavano che fosse una session come un’altra – Jay Berliner, il chitarrista, aveva passato la giornata a suonare jingle pubblicitari per Noxzema e Pringles. Morrison, invece di presentarsi, si è fiondato davanti al microfono e ha iniziato a suonare la chitarra. «È un tipo strano», racconta il bassista Richard Davis. «Non avevamo nessun problema con Van, anche perché non ci ha mai rivolto la parola».
Tuttavia, quello che Van e gli altri musicisti hanno registrato è diventato come un mito, un poema antico. Morrison rimugina sul lutto infantile in Madame George e Cyprus Avenue, sulla morte in Astral Weeks e Slim Slow Slider, l’amore in Sweet Thing e Beside You. Quello che dà vita a queste canzoni è la sua voce spezzata, e il groove spaziale – le spazzole di Connie Kay, la chitarra di Berliner, il vibrafono di Warren Smith Jr., e il basso di Davis. Come ha detto lo sciamano, you breathe in, you breathe out.
Astral Weeks non ha scalato le classifiche e nemmeno la programmazione radiofonica, è sparito poco dopo la sua uscita, nel novembre del 1968. Per anni è stato un disco da passaparola, c’era più gente a parlarne che ad ascoltarlo. Non si trovavano copie nei negozi, e quella musica incredibile passava di mano attraverso cassette pirata. Quando nel 1987 Rolling Stone l’ha inserito nella lista dei “Migliori album degli ultimi 20 anni”, al settimo posto, praticamente nessuno dei lettori aveva modo di ascoltarlo. Chi ci riusciva, invece, non poteva non condividerlo, perché quella era una leggenda che non poteva sparire.
Van lasciò Boston e si accampò a Woodstock con sua moglie, a cui cambiò il nome in “Janet Planet”. «Probabilmente gli piaceva la rima», dice la donna a Walsh. Poi ha rivoluzionato il suo suono per Moondance, l’album successivo, ma lo spirito astrale è tornato più volte nella sua musica, soprattutto in Veedon Fleece e Saint Dominic’s Preview.
Sono molti gli scrittori ad aver affrontato i misteri di Astral Weeks – un saggio del ’78 di Lester Bangs, poi Clinton Heylin con Can You Feel the Silence? e Greil Marcus in When That Rough God Goes Riding. Walsh racconta questa storia col piglio di un detective. Morrison non dice nulla – non ha mai voluto spiegare il suo capolavoro, probabilmente tanto misterioso per lui quanto lo è per noialtri. (Una volta ha detto che le canzoni gli sono “passate attraverso”).
La verità è che basta ascoltare Astral Weeks una volta per capire tutto. Perché continua a incantarci e spaesarci ancora oggi, e perché lo farà ancora.