So riconoscere una shondata dopo nemmeno cinque minuti, esattamente come so riconoscere un narcisista dopo una brevissima chiacchierata. Per quanto riguarda la prima, ho alle spalle una palestra che si chiama Grey’s Anatomy, Scandal, Le regole del delitto perfetto; per quanto riguarda il secondo, una nutrita lista di casi umani che talvolta m’hanno fregata. Le shondate e i narcisisti funzionano allo stesso modo: all’inizio vieni travolto dal lovebombing, poi, appena t’accorgi di quel che sta succedendo, capisci come andrà a finire, e sei subito annoiatissimo.
Inventing Anna, la serie sulle vicende di Anna Delvey, sedicente socialite ed ereditiera che nel giro di un paio d’anni ha truffato la New York che conta (dall’11 febbraio su Netflix), è una shondata a tutti gli effetti. Con un’aggravante: la nostra attesa e le nostre aspettative, dopo aver appassionatamente seguito le vicissitudini economiche e giudiziarie di Delvey, erano non alte, di più. E a ‘sto giro Shonda le ha purtroppo deluse. «Questa storia è del tutto vera. Tranne che per le parti assolutamente inventate»: il cartello con cui si apre ogni episodio (da sessanta minuti circa ciascuno, dio dei tagli torna a vegliare su di noi) è un chiaro riferimento alle frottole raccontate a chiunque da Delvey, ma pure da Shonda Rhimes. Che, anziché attenersi ai fatti – ossia al ritratto di Delvey scritto da Jessica Pressler e pubblicato sul New York Magazine –, anziché approfondire con intelligenza e furbizia la personalità di Anna, anziché capire come facesse a essere talmente charming al punto che nessuno riusciva a dirle di no, anziché indagare le circostanze legate alla sua comparsa sulla scena newyorchese, preferisce cambiare prospettiva, non risparmiarle il ruolo di vittima e costruirci attorno una specie di soap opera.
Tanto per cominciare, la protagonista dei nove, lunghissimi episodi non è Anna Delvey (Julia Garner), bensì Vivian Kent (Anna Chlumsky), giornalista mezza fallita che spera di riabilitare la propria reputazione narrando per filo e per segno le gesta di Delvey, la quale diventa così il mezzo – e non il fine – di Inventing Anna. Il che è in parte falso: la “vera” Jessica Pressler prese sì una grandissima cantonata lavorativa, ma ristabilì il suo nome già nel 2015 con l’articolo The Hustlers at Scores, da cui sarebbe stato poi tratto il film Hustlers (da noi Le ragazze di Wall Street) di Lorene Scafaria starring Jennifer Lopez. Quindi, in linea teorica, la reporter quarantenne con la professionalità di una neolaureata che ci ritroviamo perennemente davanti agli occhi non è mai esistita, o magari Jessica Pressler era davvero così, ma parecchi anni prima. Scusate la digressione, ora per semplicità torno a chiamarla Vivian Kent, uno dei personaggi più insopportabili che abbia avuto il dispiacere di seguire: la sua spina dorsale è quella di un organismo unicellulare, l’ingenuità è rubata a un bambino ottenne e la propensione alla lagna e al lamento assomigliano tanto ai brontolii di certe nonne.
Vivian deve affrancarsi da un mondo (e da un capo) brutto e cattivo, e nonostante non sia più di primo pelo viene trattata da amici, colleghi (tre quarti del cast di Scandal) e dal fidanzato come una picchiatella che necessita dell’insegnante di sostegno per affrontare la vita. Desiderio di riscatto: ecco l’ingrediente non richiesto che Shonda Rhimes inserisce arbitrariamente nella storia, trasformandolo nel motore senza che se ne sentisse il bisogno. A tal proposito, crea di sana pianta la figura di Chase Sikorski, aspirante guru della tecnologia in procinto di sviluppare un’app, Wake, con lo scopo di catturare e raccogliere dati dai sogni delle persone. L’articolo originale del New York Magazine contiene soltanto un accenno a riguardo, citandolo come “The Futurist”: «L’amministratore delegato ha incontrato Anna tramite il ragazzo con cui si faceva vedere in giro da un po’, un futurista del circuito TED-Talks che era stato raccontato dal New Yorker. Per circa due anni erano stati una specie di squadra, presentandosi in luoghi frequentati da gente facoltosa, vivendo in hotel di lusso e ospitando lussuose cene dove il futurista parlava della sua app e Delvey del club privato (…) The Futurist, la cui app non si è mai materializzata, si trasferì poi negli Emirati e Anna tornò a New York da sola».
Non è quindi una potenziale delusione amorosa che fa scattare il grande imbroglio. Non è la volontà di dimostrare che anche le donne, quando vogliono, sanno essere determinate e spietate quanto gli uomini. Non è la gelosia nei confronti del successo e del rispetto che i maschi paiono sapersi conquistare più facilmente delle femmine. Cos’è stato, quindi? Be’, è proprio questo il problema: non lo sapremo mai, ché per Rhimes era più semplice e consolatorio gestire sentimenti maneggiabili (la solitudine, l’abbandono, il revanscismo) piuttosto che addentrarsi in territori inesplorati (l’invidia sociale, la freddezza, il calcolo, la doppiezza, l’essere delle approfittatrici impenitenti, l’assenza di senso di colpa). Umanizzando eccessivamente i personaggi, rendendoli immedesimabili, un fatto di cronaca più avvincente di una spy-story è stato ridotto alla stregua di una telenovela su una ragazzina che per essere presa sul serio rinuncia ai capelli biondi e agli abiti sgargianti e intuisce che è meglio inforcare un paio d’occhiali dalla montatura spessa e stipare l’armadio di tubini neri Celine e sandali Gucci.
Infine, una nota dolente che mi spezza il cuore: sebbene Julia Garner sia una delle migliori attrici in circolazione (e badate bene, continuo a sostenerlo), la sua performance è al limite della tragedia. Il che costituisce il peccato più difficile da perdonare a Shonda: a causa di una scrittura povera e di una direzione inesistente, Garner risulta artificiale, quasi cartoonesca, fin ridicola, oltremodo stereotipata. Astenendosi dal voler comprendere davvero il personaggio di Anna Delvey e scandagliare i tanti misteri che l’avvolgono, Rhimes spreca in maniera stupida un’occasione (e una star) pazzesca, una di quelle congiunture astrali che ti capitano una volta nella vita. «What is it about Anna?», si chiede a un certo punto Vivian Kent, e noi uguale: soprattutto, è difficile immaginare come qualcuno abbia potuto credere che l’Anna Delvey della serie possedesse un enorme fondo fiduciario e le abbia concesso un prestito da ventidue milioni di dollari per avviare la sua attività a Manhattan.
In certi casi bisognerebbe imparare dai più bravi: tipo da Craig Gillespie e Robert D. Siegel, che, partendo da una vicenda di cronaca parimenti pazzesca (lo scandalo legato alla diffusione del sex tape di Pamela Anderson e Tommy Lee), hanno confezionato una serie – Pam & Tommy, su Disney+ – divertente, ironica, non scontata e accuratissima. La mia personale morale? Spesso gli stronzi come Anna Delvey o come Tommy Lee vanno dipinti per quel che sono, perché appena cerchi di intravederci del buono perdono ciò che li rende interessanti: l’essere degli stronzi, per l’appunto, né più né meno.