Non esiste Sanremo senza conferenze stampa di Sanremo, lo sa chi come me – non siamo così pochi, noi feticisti della materia – le attende febbrilmente di giorno in giorno fin dalla vigilia, quel lunedì prima dell’inizio del Festival in cui il parlarne in assenza già indica la rotta, la narrazione. Da quando a Rai 1 c’è Stefano Coletta, il direttore detto a Roma Colette per via della vibe letteraria, è narrazione proprio in senso scolastico, con il narratore e il narratario. È con lui che Sanremo è diventato, di più ancora, quel Grande Romanzo Italiano che tutti gli anni qualcuno si prende la briga di scrivere, per fortuna.
Le conferenze stampa di Sanremo sono un genere letterario a sé, e quest’anno il sempre indolcevitato Colette ha voluto farlo definitivamente capire trollandoci tutti, parlando – davanti a giornalisti che vogliono solo sapere qual è l’emozione di Ama (sic) – di Pirandello, quarte pareti, Paolo Poli (forse Paolo Poli era l’anno scorso, questo è un romanzo senza tempo, una Recherche). Fino al superospite dell’altra mattina, Sigmund Freud: il direttore ha illustrato davanti alla classe la tesina sul perturbante, «un sentimento che è un po’ sostantivato dal tedesco», spiegava. In tempi in cui si fa divulgazione (su Instagram la chiamano così) senza sapere un cazzo, in cui se si è letto due libri si viene subito additati come pericolosissimi radical chic, Colette dice quasi sottovoce «Nella vita ho studiato tanto, e quindi ogni tanto mi vengono in mente delle cose», davanti agli ignorantissimi scribacchini d’oggigiorno. Lo si ama (con la minuscola) anche per questo.
La DAD del professor Colette comprende lezioni sul linguaggio della televisione (l’emotainment!), lettura critica delle serate di Festivàl (dove Fiorello diventa un «guascone siculo»), analisi dei numeri ma sempre da liceo classico, che ci importa delle cifre dello share quando si può parlare di «fruizione spappolata», che mi pare il modo migliore d’intendere e descrivere il tempo audiovisivo che viviamo.
Nell’anno della distopia che ci ha regalato il Sanremo della distopia – il Sanremo con, sul palco, Fulminacci e La Rappresentante di Lista; il Sanremo con, nelle trasmissioni del pomeriggio di Rai 1, Rita Dalla Chiesa che conversa con i Coma_Cose – ciò che resta immutabile è il romanzo delle conferenze stampa. Sindaco, assessori, vicedirettori, capistruttura, superagenti che però stanno zitti perché il potere non parla, quadri (di viale Mazzini, non quelli di Achille Lauro), ospiti che, se bravi, possono prendere anche loro dei detour da romanzo (la Nilla Pizzi operaia dell’adorabile Palombelli di stamane). E giornalisti, soprattutto giornalisti, quest’anno più che mai in prima linea, anzi in trincea, il 2021 è il 1917 delle piccoli firme musicali, un unico drammatico piano sequenza che per una volta affratella i poveri embedded costretti ai tramezzini del supermercato e i lussuosi inviati dall’Hotel Palestine, forse meglio dire Prenestine, che lamentano la mancanza di cappuccini e trofie al pesto.
Giornalisti ancora a caccia di scoop con cui convincere il caporedattore a metterli in prima pagina. Amadeus, a differenza di Colette, il senso della narrazione non ce l’ha, quantomeno nella scrittura delle sue serate, fluviali ma inutilmente, non come lo sono i bei libri. Ma Amadeus è colui che, in tempi recenti, ha saputo raccontare meglio di chiunque altro la morte del giornalismo. Ha inaugurato la prima serata leggendo la lettera che aveva scritto per un giornale, pubblicata quella mattina stessa. Sapeva benissimo che nessuno l’aveva letta, perché nessuno compra e legge più i giornali. Ha capito dalle conferenze stampa, e da Colette, che Sanremo è un grande romanzo orale, e già ci dispiace che tra due giorni dovremo smettere di ascoltarlo.