Ci eravamo lasciati a Madrid, occhi puntati sulla guerra tra Letizia e Juan Carlos. E dobbiamo tornare alle battute iniziali di quella faida per occuparci di un’altra battaglia dinastica, questa volta tutta italiana.
Palazzo della Zarzuela, 22 maggio 2004. Al ricevimento di nozze dell’erede al trono di Spagna, Felipe, con la signorina Ortiz, scrivevamo sette giorni fa, intervengono tutte le teste coronate d’Europa. In carica o deposte che siano. E l’invito arriva anche a Casa Savoia. Le case, per la verità, sono due. Quella di Ginevra, dove vivono Vittorio Emanuele, unico figlio maschio dell’ultimo sovrano Umberto II, la moglie Marina e il figlio Emanuele Filiberto: sono i Savoia Carignano, discendenti in linea retta dei re d’Italia. L’altro indirizzo è a Meliciano, sui colli aretini, residenza del cugino Amedeo, duca d’Aosta, sposato in seconde nozze con Silvia Paternò. I due esponenti della dinastia sabauda, lo sanno tutti, non si amano. Ma d’un tratto, alla festa, si scatena il parapiglia. Amedeo passa alle spalle di Vittorio Emanuele. Gli rivolge, diranno i commensali, un «ciao cugino», forse leggermente ammantato di sfottò. L’altro esplode. E gli assesta un bel paio di pugni. «Mi tirò su Anna Maria, l’ex regina di Grecia», racconterà l’offeso. Un’altra regina, Sofia, moglie di Juan Carlos, è esterrefatta: «Nunca mas en mi casa». Mai più. E in effetti da quel momento non soltanto i reali d’Europa eviteranno di avere i due contendenti allo stesso ricevimento, ma i due cugini smetteranno di avere rapporti. A distanza, però, Vittorio e Amedeo nell’ultimo ventennio si sono inferti colpi bassi a non finire, mettendo in mezzo tribunali, sedicenti consulte, giornali. Sono nati principi del Regno d’Italia e non intendono retrocedere di un passo: pretendono, ognuno per sé, il titolo di erede al trono. Eccoli, i real contendenti di questa settimana.
La diatriba che divide Vittorio e Amedeo ha radici profonde che risalgono almeno alla fine dell’800. Quando cioè il nonno dell’Aosta, Emanuele Filiberto, passato alla storia come Duca Invitto – mai una battaglia persa sul campo – si dice tramasse contro l’erede al trono, il futuro Vittorio Emanuele III, suo coetaneo. Il quale, a cospetto del cugino, sfigurava: minuto e tormentato il predestinato, vigoroso e seducente l’antagonista. Il duca avrebbe volentieri soffiato il trono al legittimo destinatario. Stesso desiderio di rivalsa infiammerà, oltre un secolo più tardi, gli animi tra i rispettivi nipoti.
L’occasione si presentò dopo il 1983, alla morte di Umberto II, il mite re di maggio. Galantuomo e rispettoso delle regole, l’ultimo sovrano d’Italia esiliato a Cascais mai abbandonò l’osservanza delle leggi dinastiche, architravi della sua essenza. Umberto era l’uomo più titolato al mondo con circa 300 predicati nobiliari, da re d’Italia a patrizio di Ferrara. Il referendum del 1946 lo aveva sì spodestato dal trono ma non aveva influito sulla sua autorità come capo della casata. Che di norma concede titoli, collari dell’Annunziata – massima onorificenza sabauda – e, soprattutto, dà il proprio consenso alle nozze del parentado. Non è solo questione di cortesie familiari, ma soprattutto politica: sono i matrimoni gli strumenti con i quali si creano alleanze dinastiche e si ribaltano troni. Tanto che in casa Savoia le unioni tra, citiamo, “disuguali”, cioè tra persone appartenenti a ranghi diversi, non sono ammesse. Necessitano di espresso consenso del capo della casata. Pena la decadenza dalle prerogative successorie. Toccò a Umberto imbattersi anche in questa grana.
Perché Vittorio Emanuele, l’unico figlio maschio del re esiliato e di Maria José, sin da ragazzo si invaghì solo di donne bellissime, ma senza stemma. Prima fu il turno dell’attrice Dominique Claudel; poi sulla scena si affacciò Marina Ricolfi Doria, bella e ricca, ma non nobile. Vittorio sfidò le regole, ci furono anche aspre discussioni, e la sposò. Ben due volte. La prima, civilmente, a Las Vegas, nel 1970. Il principe era lì con Corrado Agusta, ramo elicotteri, per il quale lavorava. Si era fatto accompagnare da Marina e ne approfittarono. Poi l’anno seguente, a Teheran, si dissero sì con rito cattolico e ricevimento ospitato dallo scià, Reza Pahlavi, grande amico dello sposo. Nel 1972 nacque Emanuele Filiberto, battezzato davanti al nonno. «In quell’occasione mi concesse il titolo di principe di Venezia. E così legittimò di fatto non solo la mia nascita, ma anche il matrimonio dei miei genitori», dirà poi il principe. Venuto a mancare Umberto iniziarono però le contestazioni.
In ambito monarchico, e in famiglia, già nei primi anni ’80 si mormorava: le nozze di Vittorio Emanuele e Marina sono valide a fini dinastici? In realtà la questione fungeva da paravento. Molti ritenevano il figlio di Umberto inadatto a ricoprire il ruolo di capo della casata per il grande sconcerto provocato dall’incidente al largo dell’Isola di Cavallo nel 1978: un colpo esploso da un’arma impugnata dal principe perforò l’addome del diciannovenne Dirk Hamer. Nel 1991 Vittorio venne condannato dalla giustizia francese, non per omicidio volontario ma per porto abusivo d’armi: 6 mesi con la condizionale. Amedeo non intervenne direttamente nel chiacchiericcio dinastico, ma rispose ostentando la propria irreprensibilità. Lui i dettami li aveva rispettati tutti. Nel 1964 sposò in prime nozze una principessa vera e propria, Claudia d’Orleans. Per il re in esilio l’Aosta era un fedele scudiero in patria. La XIII disposizione transitoria della Costituzione, infatti, impediva sì agli ex re di Casa Savoia e ai loro discendenti maschi di mettere piede sul territorio italiano. Ma non citava i rami collaterali: tanto che Amedeo dal Paese non se ne è mai andato e informava il nostalgico re di quel che accadeva in patria. Ecco un punto fondamentale: la presenza. In Italia sono loro, gli Aosta, i Savoia più popolari, anche perché fisicamente visibili.
Con il nuovo millennio tutti i nodi, espressi o solo mormorati, vengono al pettine. Nel 2002 viene abrogata la disposizione transitoria dalla Costituzione. Vittorio Emanuele e suo figlio possono tornare in Italia. E la questione dinastica guadagna subito la ribalta: viene affrontata dalla Consulta dei senatori del Regno, un’associazione costituita nel 1955 da un centinaio di ex senatori del vecchio senato regio. Riemergono alcune lettere precedenti al matrimonio di Vittorio e Marina in cui Umberto ammonisce il figlio: “Bada”, vi si legge in sostanza, “le leggi di famiglia sono queste”. Epistole che vengono brandite da Amedeo, ma senza grandi proclami. Il duca usa la tattica di mostrare l’evidenza. La sua tesi: in mancanza di un incontrovertibile consenso reale alle nozze di mio cugino con la signora Doria, il legittimo erede della casata sono io.
Il primo atto del rincasato principe di Napoli, Vittorio Emanuele, è quello di congedare la Consulta. «Non ha più senso che esista, siamo tornati». Non spende grandi parole per legittimare la sua posizione. Semplicemente considera traditore chi osa metterla in dubbio. Si delineano due fazioni che arriveranno a formare due consulte. I giornali cominciano a riportare dichiarazioni di tutti i Savoia, compresa l’ex regina d’Italia Maria José, morta da pochi mesi. «Nelle ultime settimane di vita il re era molto vicino al piccolo Emanuele Filiberto che vedeva come continuatore della dinastia», disse a Point de vue la sovrana. Gli scambi di cortesie tra i contendenti sono meno solenni. Si va dall’allevatore di maiali al principe abusivo. Entrambi, Vittorio e Amedeo, sostengono che la diatriba ha valore meramente simbolico, d’altronde un trono non c’è più e mai tornerà, ma se le danno di santa ragione. E lo scambio fisico a Madrid ne è la conferma. Nel frattempo, pure il candido Amedeo affronta un suo scandalo: nel 2005 intrattiene una relazione con la nobildonna-regista di origine olandese Kyara van Ellinkhuizen. Nascerà una bimba, Ginevra. E una conseguente battaglia, soprattutto a suon di copertine dei settimanali. Il duca concede il riconoscimento di paternità alla bambina, con tanto di intervista esclusiva a Domenica In. I Savoia tirano, eccome.
Ne sa qualcosa Emanuele Filiberto che in quegli anni parte alla conquista di un territorio inesplorato: gli show nazional-popolari. Ballando con le stelle, I raccomandati, Pechino Express, recentemente Amici Celebrities. Partecipa anche a un Sanremo, con Pupo e Luca Canonici portando, a rileggerne oggi il testo, il primo manifesto sovranista: Italia, amore mio. Si sposa con un’attrice francese e un po’ algida, Clotilde Coureau. Non cavalca le beghe dinastiche, preferisce fare affari con la sua immagine. Piace: è biondo, un po’ stralunato ma assai educato. Ben presto, per tutti diventa “Il principe”. Il pubblico non gli riconosce un titolo millenario, gli affibbia un nome d’arte. E a lui sta benissimo così.
La guerra tra i cugini, intanto, prosegue come un conflitto di trincea: va a periodi. Il capitolo sull’uso del cognome “Savoia” accanto ad “Aosta”, fa scomodare persino la giustizia ordinaria italiana. Vince prima uno, poi l’altro la spunta nel ricorso. Si aspetta la Cassazione. L’ultima scossa s’è registrata a gennaio, tre mesi fa. Vittorio Emanuele riguadagna la ribalta della cronaca con la “rivoluzione rosa”. Casa Savoia abroga la legge salica. Non è più prevista la supremazia del ramo maschile: chi prima nasce, a prescindere dal sesso, comanda. Decisione necessaria: Emanuele Filiberto da Clotilde ha avuto due femmine, Vittoria, 16 anni, e Luisa, 13. «La grande per ora studia, fa il liceo classico. Ma sta imparando a conoscere quello che un giorno sarà il suo ruolo», dice Emanuele Filiberto, che per un momento toglie i lustrini e torna discendente di Umberto Biancamano, il capostipite. Il ruolo di cui parla attiene soprattutto agli Ordini dinastici di casa Savoia, enti che organizzano attività di filantropia in giro per il mondo. Vittoria, da quando è principessa di Carignano, non pare mossa da chissà quale fuoco sacro dinastico. È un’adolescente come tante che gioca su Instagram, dove ha raccolto 9 mila e rotti follower. Probabilmente quel lontano cugino di suo nonno l’ha visto in foto, una volta. Ma la reazione di Amedeo non s’è fatta attendere. «Vittoria è una ragazza perbene, ben seguita dai genitori. Ma non è l’erede, non per me». La saga continua. Aveva ragione quella principessa che un giorno disse: «Il trono, che cosa scomoda. Meglio avere in eredità due specchiere: quelle, almeno, si possono dividere». Ed esistono, a differenza del Regno d’Italia.