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A Gerusalemme la tensione è oltre il livello di guardia

Gli scontri tra palestinesi e polizia israeliana vanno avanti da giorni: 150 i feriti e oltre 300 gli arrestati. Nell'anno della coincidenza tra la Pasqua cristiana, la Pasqua ebraica e il Ramadan le tensioni erano state ampiamente annunciate. Intanto il governo Bennett rischia di cadere

Foto di Mohammed Abed/AFP via Getty Images

È dal venerdì di Pasqua che a Gerusalemme non si fermano gli scontri tra palestinesi e polizia israeliana. Tutto è cominciato con l’irruzione delle forze di polizia all’interno del complesso della moschea di al Aqsa, dove decine di persone erano riunite a pregare. La versione fornita dal governo di Israele è che gli agenti avrebbero deciso di muoversi dopo essere stati oggetto di un lancio di pietre da parte dei palestinesi e che sarebbero stati pronti ad aggredire dei visitatori ebrei in arrivo nella vicina «Spianata delle moschee», luogo che possono visitare ma sul quale non sono autorizzati a fermarsi per pregare. Se nel primo giorno i feriti erano stati una settantina, la situazione non è migliorata con il passare delle ore e ancora adesso a Gerusalemme la tensione è oltre il livello di guardia: il conto dei feriti è salito oltre i trecento, mentre i palestinesi arrestati sono almeno 150.

Gerusalemme quest’anno attraversa un periodo più unico che raro: città sacra per tutte e tre le grandi religioni monoteiste, sta vivendo l’esatta coincidenza tra la Pasqua cristiana, la Pasqua ebraica e il Ramadan, con le varie funzioni che spesso si svolgono in contemporanea e portano i fedeli a frequentare gli stessi luoghi. Una situazione del genere non accadeva dal 1991 e, se è vero che l’evento ha caratteristiche straordinarie, è anche vero che le tensioni erano state ampiamente preannunciate.

Tra fine marzo e inizio aprile in Israele si erano registrati diversi attacchi terroristici compiuti da palestinesi, con un conto finale di 11 morti e diverse decine di feriti. Una serie ravvicinata che ha allarmato non poco l’opinione pubblica e che ha spinto il governo di Naftali Bennett a rafforzare la presenza militare israeliana in Cisgiordania e a consigliare a tutti i possessori di porto d’armi di andare in giro con la pistola dietro. Contrariamente a quanto fatto in passato, però, Bennett ha deciso di non varare alcun tipo di restrizione all’ingresso della moschea di al Aqsa.

Il premier, in ogni caso, non ha dubbi sul fatto che dietro le proteste ci sia una precisa strategia di Hamas, il movimento palestinese islamista che dal 2006 detiene la maggioranza del Consiglio legislativo. «Nell’ultima settimana viene condotta contro di noi una campagna violenta indirizzata da Hamas – ha affermato Bennett in un comunicato –. Israele fa come sempre il possibile affinché tutti possano celebrare in sicurezza le proprie festività: ebrei, musulmani e cristiani. Noi ci aspettiamo da tutti che non si uniscano alle menzogne di Hamas e che non incitino alla violenza contro gli ebrei».

Gli scontri cominciati venerdì, ad ogni buon conto, sono anche alla base dell’aggravarsi della crisi politica che già da qualche tempo sta vivendo il governo Bennett, in carica dallo scorso giugno e sostenuto da una maggioranza sin troppo eterogenea di forze che vanno dalla sinistra all’estrema destra. Ra’am, la Lista Araba Unita, dopo i fatti degli ultimi giorni, ha deciso di ritirarsi dalla coalizione di governo, che a questo punto si troverebbe in minoranza in parlamento, perché l’opposizione arriverebbe a occupare 64 seggi su 120.

Fino all’8 maggio, comunque, non sono previste sedute parlamentari e dunque il tempo per provare a porre rimedio alla situazione ancora c’è per Bennett, anche se gli osservatori ritengono che già sia un miracolo aver tenuto insieme una simile maggioranza per quasi un anno e già profetizzano una nuova tornata elettorale o un ritorno di Netanyahu alla guida del Paese. Il sistema politico israeliano appare in crisi istituzionale ormai da anni, con maggioranze che nascono e che muoiono nel giro di pochi mesi e un continuo ritorno alle urne, da cui escono sempre risultati prevedibili ma di difficilissima lettura proprio per la varietà di composizione del quadro politico e delle ipotetiche coalizioni che si potrebbero formare.

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