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I gruppi WhatsApp di studenti e professori saranno aboliti?

La storia della preside accusata di avere una relazione con un alunno del liceo Montale di Roma potrebbe portare a una stretta sulle chat tra alunni e docenti, ma l'approccio repressivo servirà davvero a qualcosa?

Foto di Stefano Guidi/Getty Images

Come è accaduto purtroppo in altri casi simili, l’episodio che ha visto una preside di Roma finire su tutti i giornali con nome e foto perché accusata di aver avuto una relazione con uno studente maggiorenne (rimasto invece anonimo), non ha visto le associazioni di categoria prendere le difese della collega. Al contrario, l’Associazione nazionale presidi (Anp) ha deciso poche settimane dopo il caso che il Codice deontologico va rivisto, e che serve maggior controllo e regolamentazione nelle chat tra studenti, professori, genitori e dirigenti. Manco a dirlo, i primi sostenitori di queste modifiche sono i presidi dell’Anp di Roma.

Certo, il codice deontologico non ha valore vincolante, ma comunque dà un indirizzo, dei modelli di comportamento che dovrebbero riflettere il pensiero del corpo docente su ciò che si considera giusto o sbagliato. In particolare, secondo Mario Rusconi, presidente Anp di Roma, il codice dovrebbe prevedere un utilizzo dei gruppi WhatsApp solo per le emergenze oltre a sconsigliare le amicizie social tra studenti e professori.

Apparentemente non sembra trattarsi di una questione rilevante, però può fare riflettere su come la scuola italiana vede le nuove tecnologie e anche su come, soprattutto durante il Covid, sia cambiata la relazione tra studenti e professori. Secondo Tommaso Biancuzzi, coordinatore nazionale di Rete degli Studenti Medi, il più grande sindacato studentesco d’Italia, l’approccio utilizzato è stato solamente repressivo, come ha detto a Rolling Stone «Premetto che non siamo i soli ad aver sollevato delle obiezioni su queste modifiche al codice deontologico: lo stesso ministro Bianchi ha bollato la proposta come “superflua”. Per noi si tratta di una scelta normativa che non tiene conto delle esigenze di vicinanza che sono cresciute soprattutto durante la pandemia. Non ha senso chiudere di netto questi rapporti che sono cresciuti naturalmente a causa della distanza, la soluzione non dovrebbe arrivare da un regolatore che decide cosa si può o non si può fare».

I cambiamenti che la scuola ha dovuto affrontare durante questi anni l’hanno, per forza di cose, costretta a occupare anche gli spazi della rete. È sbagliato credere che tutto questo lavoro sul digitale verrà accantonato con il ritorno alla normalità, quindi anche i nuovi modi con cui gli studenti hanno imparato a relazionarsi con i loro prof non scompariranno nel nulla.

È un tema interessante anche perché i rischi di un abuso di comunicazioni, soprattutto nelle chat collettive, ci sono e possono portare a tensioni nel gruppo classe e tra docenti e genitori. L’esempio che fa Rusconi per motivare la scelta dei presidi è la classica discussione in cui i genitori su WhatsApp si lamentano dei voti dati ai loro figli o controllano ossessivamente il programma svolto dal docente. L’altro aspetto centrale che solleva questa decisione riguarda come stanno cambiando i rapporti studente professore. Per creare il giusto legame educativo con i suoi ragazzi un docente dovrebbe essere sì capace di interessare e quindi capire i suoi studenti, ma al tempo stesso costruire anche una certa distanza per evitare di essere percepito come “uno di loro”. I social favoriscono la disintermediazione e quindi possono accorciare un po’ troppo questa distanza.

«Non vedo questo rischio – continua Biancuzzi – a me è capitato di avere docenti che hanno accettato la mia richiesta d’amicizia solo dopo la maturità, o addirittura senza profili social, ma non ho notato differenze tra loro e quelli con cui invece potevo dialogare liberamente anche online».  A detta dello studente, stringere amicizie virtuali o intrattenere conversazioni su Instagram non implica di per sé un abbattimento della barriera di confidenza che dovrebbe regolare i rapporti alunno-professore. Il punto, come semprem sta nel come questi mezzi vengono utilizzati. Per questo, più che dei rigidi paletti e delle direttive precise, servirebbe fare tanta educazione digitale a scuola, anche ai docenti: «Personalmente vedo molta disponibilità da parte del corpo insegnanti a mettersi in gioco in questo senso; quindi, credo che la maggior parte di loro si renda conto di quanto è importante formarsi sulle “nuove tecnologie”, che poi ormai non sono più davvero nuove. Sarebbe importante soprattutto che i percorsi di formazione digitale per studenti e professori procedessero di pari passo, perché anche i giovani hanno tanto da imparare su come si sta online, basti citare i casi di cyberbullismo sempre più frequenti. Vedo anche positivo che si condivida insieme un obiettivo comune: costruire anche un ambiente virtuale davvero educativo».

In effetti un percorso di formazione anche per gli insegnanti su questi temi potrebbe servire a trasmettere conoscenze base sul funzionamento dei social e le buone pratiche di comportamento online, che molti di loro non conoscono per una banale ragione anagrafica. Il nostro corpo docente è tra i più vecchi d’Europa: il 18% dei nostri insegnanti ha più di 60 anni, il doppio della media UE.

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