Sulle carceri italiane sappiamo molte cose: conosciamo bene il problema cronico del sovraffollamento, la composizione della popolazione carceraria, il tasso di recidiva. Ma sappiamo molto poco di come vive un detenuto disabile in carcere. L’ultima rilevazione sul tema è del 2015: all’epoca i detenuti con disabilità presenti nelle carceri italiane erano 628. Non esistono, però, dati più recenti, complice anche il mancato accordo tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) e il Sistema sanitario nazionale per un monitoraggio permanente sulla disabilità in carcere. Nemmeno l’onda d’urto provocata dai fatti di Santa Maria Capua Vetere è riuscita a portare in superficie il tema della disabilità nelle carceri. E per molti detenuti disabili, il carcere è un luogo in cui “si impara a subire”.
Essere un detenuto con una disabilità fisica o motoria significa non solo perdere la libertà, ma anche l’autonomia di poter disporre di se stessi. E, spesso, un ruolo attivo nella perdita di indipendenza lo giocano le strutture stesse. «All’inizio, quando sono arrivato in carcere, riuscivo ancora camminare con l’aiuto di stampelle», spiega a Rolling Stone Marco, che è detenuto dal 2012. «Facevo anche riabilitazione con una cyclette. Ero anche in grado di vestirmi, svestirmi e andare in bagno da solo. Insomma, ero quasi una persona autonoma. Poi sono stato trasferito in un altro istituto penitenziario». Senza una cyclette adatta e senza la possibilità di fare fisioterapia, Marco è finito in sedia a rotelle. «Nel nuovo carcere non ho potuto fare riabilitazione per tre anni e mezzo», racconta. «Per un po’ ho continuato a camminare, ma senza i giusti esercizi sono finito in carrozzina. E adesso vivo in mano agli altri».
Anche se la situazione varia da istituto a istituto, in Italia sono poche le strutture adatte ad accogliere detenuti disabili, tra marciapiedi e scivoli sconnessi, bagni inadeguati, assenza di ascensori, carrozzine con le ruote bucate e ausili sanitari assenti o inefficaci. Tanto che anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte l’Italia per il trattamento riservato ai detenuti con disabilità. «Il trattamento che il personale sanitario mi riserva è inumano», racconta Marco. «Mi hanno anche dimenticato nel bagno. Non ho chi mi taglia la carne o chi mi lava la tazza con cui faccio colazione. Ma io chiedo solo di andare in bagno o di essere accompagnato a letto. Il personale sanitario mi umilia: non denuncio per paura di ritorsioni».
La riforma del 2008, che ha trasferito le competenze in materia di sanità penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale ha finito per complicare il quadro. Come spiega Sandro Libianchi, Coordinamento Nazionale per la Salute nelle Carceri Italiane (CoNOSCI): «Non c’è comunicazione tra Giustizia e Sanità». E quindi i problemi stagnano. «In molti casi non c’è nemmeno la garanzia di ambienti adeguati alle limitazioni. Tutte le carceri dovrebbero essere adeguate alla disabilità. In realtà, sono rarissime le strutture con bagni attrezzati. Questo perché il numero di disabili è basso». Anche i dispositivi sanitari sono carenti. «C’è una disputa tra Sanità e Giustizia su chi li debba fornire», dice Libianchi.
Una figura a cui le strutture fanno ricorso nel caso di detenuti disabili è quella del “piantone”, un altro detenuto che si prende cura della persona con disabilità in cambio di soldi. «Non hanno, però, una formazione adeguata», spiega Libianchi. «La soluzione potrebbe essere quella di impiegare caregiver esterni. Ma non sono previsti dai budget regionali. Ci vorrebbero fondi aggiuntivi». E i problemi non finiscono qui. «Una rete territoriale di caregiver si traduce poi nell’avere persone disponibili a chiamata, che si metterebbero a disposizione per un periodo limitato di tempo. Senza contare che il carcere resta un luogo poco allettante dove lavorare». Per i detenuti disabili, quindi, il carcere si configura più come un accanimento terapeutico che come un luogo dove vedere rispettate le stesse garanzie del “fuori”, in attesa di un ritorno all’interno della società. Una pena nella pena che accentua difficoltà e fragilità, come in un eterno ritorno.