Che la televisione italiana avesse assunto una dimensione sempre più junk lo si era capito almeno dalla prima metà degli anni Novanta, quando la colonizzazione dei palinsesti da parte dell’intrattenimento “vedo non vedo” della peggior specie, l’adeguamento dell’offerta della RAI alla barbarie culturale della concorrenza e la demonizzazione di ogni tentativo di approfondimento hanno incentivato la nostra definitiva trasformazione in Homini Stupidi Stupidi, per dirla con Vittorino Andreoli.
Eppure, se possibile, dallo scorso 24 febbraio, quando ha avuto inizio la guerra d’aggressione russa in Ucraina, il sistema-televisione nostrano ha saputo alzare ulteriormente l’asticella della desolazione.
Un cortocircuito che affonda le radici nella formula stessa dei talk show – tacciata di anacronismo da almeno un decennio ma lasciata in vita nonostante l’accanimento terapeutico –, dei contenitori che si prestano benissimo a modellare la realtà sulla base delle esigenze dello share.
Gli aneddoti utili a validare questo assioma, purtroppo, non mancano: è quel che accade, ad esempio, quando un negazionista del riscaldamento globale finanziato dalle multinazionali del fossile viene invitato in una trasmissione in veste di “voce autorevole”, e poco importa se il 99% della comunità scientifica concorda sull’origine antropica dell’aumento delle emissioni che ci stanno spingendo sull’orlo della sesta estinzione di massa; o, ancora, quando viene offerto un palcoscenico in prima serata al fenomeno da baraccone di turno per portare avanti una crociata del tutto ideologica contro una conquista di civiltà come i vaccini con la scusa di “dover ascoltare tutte le campane”, in un raro esercizio di irresponsabilità e cinismo – sì perché, quando parli a milioni di spettatori e hai il potere di plasmare la percezione delle cose, devi anche assumerti la responsabilità di ciò che decidi di vendere come verità.
Ebbene, anche sullo sfondo del conflitto europeo più grave dai tempi della Seconda guerra mondiale, i nostri salotti televisivi non hanno saputo risparmiarsi, trasformando un fenomeno complesso e stratificato (una guerra che ha implicazioni di ogni tipo: economiche, energetiche, alimentari, oltre all’ovvio dramma umanitario e personale delle vittime e dei tanti profughi costretti a reinventarsi una vita da zero) nella solita disputa manichea e aprioristica che vede contrapposti opposti estremismi: pro-Putin e anti-Putin, interventisti e neutralisti, presunti buoni e presunti cattivi, lo yin e lo yang del pensiero acritico a ogni costo.
Nelle ultime settimane il livello dell’analisi politica si intravede appena, ridicolo come un calzino arrotolato nelle mutande: la vexata quaestio è appiattita sul “chi ha ragione e chi ha torto” (quasi non si parlasse di ragioni geopolitiche, ma di un sofisticato dibattito attorno alla temperatura di evaporazione dell’acqua), mentre l’attenzione del pubblico è interamente fagocitata dal culto della personalità di una cerchia ristretta di opinionisti che ha scelto di sfruttare la drammaticità del momento per assicurarsi il proprio posticino al sole. Uno schema reso evidente da quanto accaduto lunedì durante la puntata di Carta Bianca, la trasmissione condotta da Bianca Berlinguer su Rai 3.
Un siparietto ridicolo che, purtroppo, ha coinvolto anche un docente serio e preparato come Vittorio Emanuele Parsi, ordinario di Relazioni internazionali presso l’Università Cattolica di Milano.
Dilaniato dalle inesattezze e dai pressapochismi – ad esempio, quando la padrona di casa he detto che «Parsi dice che l’Europa non può farsi mediatrice se ha inviato le armi e la Turchia no», il docente ha dovuto richiamarla all’ordine, ricordando che è stata proprio Istanbul a mettere a disposizione i droni Bayraktar con cui gli ucraini stanno facendo fuori i carri russi – il professore ha optato per l’unica scelta possibile, ossia quella di abbandonare una nave che stava già precipitando sul fondale dell’inconsistenza: «Avevo chiesto una cosa, di parlare dell’Ucraina, non di fare il sandwich tra gli argomenti degli altri», ha detto colmo di rassegnazione, annunciando di voler abbandonare il collegamento.
Come ha notato il giornalista Leonardo Bianchi su Twitter, da quel momento in poi Parsi è diventato l’agnello sacrificale della logica malata dei salotti italiani, violando quella che Walter Siti, parafrasando Fight Club, ha definito come «la prima regola dei talk», ossia quel dogma che recita: «in trasmissione non si deve parlare male dei talk».
L’accerchiamento è iniziato dalla stessa Berlinguer, che lo ha incalzato ricordandogli che i suoi ospiti stavano «parlando dell’Ucraina» eccome, mentre il “greatest motherfucker in the house” di questi tempi ignobili, Alessandro Orsini, ha iniziato ad attaccarlo facendogli il verso (bentornata, prima elementare) e provando a fargli notare che, per qualche assurdo motivo, sottraendosi alla mediocrità stava «facendo una figuraccia».
Vittorio Emanuele Parsi a Orsini: "Era questo che volevo evitare, fare da cassa di risonanza a queste buffonate. Vi saluto"
segue schermo neropic.twitter.com/p9sE4xZCc2
— Pietro Salvatori (@PietroSalvatori) March 29, 2022
«Il mio errore è stato quello di non capire prima di andarci che tipo di trasmissione fosse», ha dichiarato Parsi in un’intervista concessa al Foglio. «Già da come venivo interrotto ho capito che non fosse il mio posto. Poi quando si è passati al dibattito da osteria ho realizzato che non c’era nient’altro da fare se non andarsene. Non avevo nessuna voglia di calarmi nell’arena, come se fossimo dei gladiatori».
Uno schema che viene replicato nell’identica forma anche sui social, ormai degli scannatoi all’ultimo sangue tra fazioni di commentatori ad alto tasso di tempo libero, ovviamente istigati dall’indirizzo dettato dai rispettivi “intellettuali di riferimento”.
E, mentre i campionati mondiali di pernacchie a squadre continuano a godere del favore della prima serata e a infestare i nostri feed, il racconto del conflitto assume sempre di più le fattezze tragicomiche del tifo da stadio. Insomma, facciamoci un applauso: siamo riusciti a trasformare la guerra nel nostro bar di provincia.