Lo scorso 6 aprile il partito ecologista e indipendentista Inuit Ataqatigiit ha vinto le elezioni in Groenlandia, superando la sinistra socialdemocratica di Siumut con il 37% delle preferenze. Gli indigeni hanno impostato la loro campagna elettorale sull’opposizione all’apertura di una grande miniera di minerali rari e uranio nella zona di Kvanefjeld, che potrebbe mettere a dura prova il fragile ecosistema dell’isola.
Proprio su Kvanefjeld, quinto più importante giacimento di uranio della dell’isola artica, sono da tempo rivolte le attenzioni della Cina. L’anno scorso, l’azienda australiana Greenland Minerals aveva ottenuto l’approvazione preliminare per l’apertura della miniera, spingendo il conglomerato statale cinese Shenghe resources ad acquistare il 12.5% del suo capitale.
Le mire della Cina sull’isola non dovrebbero stupire: a causa dello scioglimento dei ghiacci dovuto al riscaldamento globale, la Groenlandia è da anni al centro degli interessi commerciali delle grandi potenze, dovuti sia all’apertura di nuove rotte commerciali, sia alla competizione per l’approvvigionamento delle sue risorse naturali. L’isola è al centro dell’Artico, che secondo le stime dello US Geological Survey ospita circa il 40% delle riserve mondiali di combustibili fossili e il 30% di tutte le risorse naturali globali.
Tra queste, hanno una certa rilevanza i giacimenti non sfruttati di terre rare, ossia 17 elementi chimici – come scandio, ittrio, lantanio, cerio, e praseodimio – necessari per realizzare i dispositivi elettronici che impieghiamo ogni giorno – smartphone, tablet, notebook, schede grafiche – e accelerare il processo di decarbonizzazione. Al contrario di quanto il loro nome potrebbe suggerire si tratta di metalli piuttosto abbondanti, reperibili in quantità maggiori rispetto ad altri minerali piuttosto comuni, come il rame o il nichel.
Tuttavia, a renderle effettivamente “rare” sono la concentrazione geografica e il laborioso processo di estrazione. Si tratta di elementi che non possono venire trovati isolati in natura: devono essere estratti dalle miniere e, in un secondo momento, separati gli uni dagli altri attraverso procedimenti di raffinazione ad alto impatto ambientale.
La Cina controlla il 90% del mercato mondiale delle terre rare e, qualora a Kvanefjeld venissero avviati scavi e produzione senza il suo coinvolgimento, la posizione di semi monopolio che ha acquisito nel corso degli anni potrebbe uscirne fortemente indebolita.
La vittoria di Inuit Ataqatigiit ha scompaginato il quadro e messo a repentaglio la riuscita del piano: il partito ha infatti dichiarato di volere portare avanti progetti minerari meno nocivi, come quelli dello zinco e del rame. Tuttavia, le incognite sul futuro dell’isola sono ancora tante: pur avendo aumentato la propria autonomia nel corso degli anni, la Groenlandia dipende ancora fortemente dalla Danimarca, che ha competenza esclusiva nelle decisioni di politica estera e sicurezza ed eroga sussidi indispensabili per il sostegno dell’economia domestica, incentrata in massima misura sulla pesca. Il passo indietro appare ancora possibile, dato che il progetto di Kvanefjeld potrebbe garantire alla comunità locale introiti per 235 milioni di dollari, iniezioni di liquidità importanti per raggiungere una piena indipendenza dalla madrepatria danese.
A prescindere da come finirà, il caso della Groenlandia è indicativo di una tendenza ormai chiara: la geopolitica dei prossimi anni sarà sempre più incentrata sulla corsa all’approvvigionamento delle terre rare.
Secondo uno studio pubblicato dall’Agenzia energetica internazionale di Parigi (IEA) lo scorso 5 maggio, due terzi delle terre rare prodotte al mondo vengono dalla Cina. Una supremazia che si riflette nell’esistenza di sei gruppi di proprietà dello Stato, tra cui China Northern Rare Earth, leader mondiale e operatore nella più grande miniera di terre rare al mondo, a Bayan Obo. Inoltre, negli ultimi anni, Pechino ha stretto numerosi accordi con alcuni Paesi africani – Mozambico, Madagascar, Congo e Malawi – per assicurarsi un flusso stabile di terre rare e minerali anche al di là della dotazione domestica. Anche se attualmente è difficile immaginare una messa in discussione del primato cinese in questo settore, Russia e Stati Uniti hanno iniziato a espandere la loro sfera d’influenza nel continente, che ha quindi la possibilità di emergere come nuovo polo produttivo, stimolando una competizione estrattiva tra i principali attori mondiale.
Tanto per rendere conto dell’importanza strategica di queste risorse, basti pensare che la minaccia di “embargo” di terre rare è stata utilizzata a più riprese come arma di pressione diplomatica, come nel caso della disputa tra Cina e Giappone per il controllo delle isole Senkaku, quando Pechino ha minacciato di interrompere le esportazioni verso il Giappone per far valere la propria posizione, mettendo a rischio la dotazione di semiconduttori su cui gira buona parte della tecnologia nipponica.
Un altro esempio significativo è quello dell’estate del 2019, quando la Cina, esasperata dalla guerra commerciale dichiarata da Donald Trump, ha intimidito gli Stati Uniti facendo leva sul blocco all’export delle terre rare (non a caso, escluse sin da subito dalla lista dei dazi sulle importazioni per via della loro importanza strategica). Per gli Stati Uniti, che dipendono dalla Cina per l’80% delle loro importazioni di minerali rari, un’eventuale stretta sulle terre rare non rappresenterebbe soltanto una minaccia economica, ma anche un danno al suo sistema difensivo: questi materiali sono infatti frequentemente impiegati nella costruzione di armi avanzate – laser, droni, sistemi di guida missilistica – ed equipaggiamenti militari come gli aerei da caccia F-35, che necessitano di un significativo quantitativo di terre rare per essere prodotti.
Il dominio cinese ha spinto i competitor ad adottare le adeguate contromisure: a marzo, un gruppo di aziende canadesi, statunitensi ed europee ha siglato un accordo programmatico per la costituzione di filiere indipendenti di terre rare senza il coinvolgimento cinese, e anche l’Unione Europea sta improntando la propria strategia industriale sull’indipendenza dall’importazione di terre rare.
L’IEA ha inoltre specificato che la domanda di terre rare aumenterà di sette volte nei prossimi vent’anni, dato che si tratta di materiali indispensabili per accelerare il processo di transizione ecologica attraverso la realizzazione di magneti, turbine eoliche e motori elettrici. Un’altra questione delicata è quella relativa all’assenza di un obbligo di riciclo di questi materiali: nel 2015, a fronte di un consumo di terre rare pari a 12mila tonnellate, c’era un tasso di recupero a livello globale inferiore all’1%.
Inoltre, il raggiungimento della neutralità climatica dipenderà dallo sviluppo di una catena di fornitura indipendente di terre rare. In base all’andamento attuale, il fabbisogno globale di minerali critici (come il litio, il cobalto e, appunto, le terre rare) dovrebbe raddoppiare entro il 2040, ma se tutti i paesi del mondo mettessero in atto i requisiti dell’Accordo di Parigi per contenere l’aumento globale della temperatura “ben al di sotto i 2 gradi”, la richiesta potrebbe addirittura quadruplicare nello stesso arco di tempo.
“I dati mostrano un’imminente discrepanza tra le maggiori ambizioni climatiche del mondo e la limitata disponibilità di materiali per raggiungere tali ambizioni”, ha dichiarato Fatih Birol, direttore esecutivo dell’IEA. “Se non affrontato, questo problema potrebbe rallentare e rendere più costoso il progresso globale verso un futuro di energia pulita, e quindi ostacolerà seriamente gli sforzi internazionali per affrontare il cambiamento climatico”.