Una delle figure ricorrenti della politica americana è lo stratega presidenziale. Ovverosia una figura, spesso informale, che serve a fornire preziosi suggerimenti per vincere le elezioni o per ottenere risultati tangibili nell’immediato. Steve Bannon era uno di questi, prima di cadere in rovina con l’arresto per frode finanziaria.
Inizialmente i suoi predecessori non avevano nemmeno incarichi formali, per non essere posti sotto il controllo del Congresso o dell’opinione pubblica. Così era John Beckley, campaign manager di Thomas Jefferson per le presidenziali del 1800: immigrato inglese, ex impiegato in uno studio legale, diventa il primo autore di una moderna campagna elettorale. Usando soprattutto una ricetta: attacchi spietati al presidente in carica John Adams, ritenuto troppo filobritannico e favorevole a un ritorno della Corona nelle Tredici Colonie. Non era vero, ovviamente, e allora queste cose non finivano sulla bocca dei candidati, ma venivano declamate dai suoi sostenitori, che si facevano carico di compiti che erano ritenuti poco nobili ed edificanti per chi si candidava a occupare “l’alta magistratura” della presidenza. Ma non disdegnava comunque di dare l’ok alla circolazione di questo tipo di voci incontrollate.
È soltanto nel Novecento però che questa figura si afferma, con molti nomi provenienti dal giornalismo o dalla pubblicità. Così abbiamo Mark Hanna, che convince i maggiori imprenditori del Paese a sostenere il repubblicano William McKinley per le presidenziali del 1896 contro l’arrembante campagna del populista democratico William Jennings Bryan. Nel secondo Dopoguerra l’idea si delinea con lo storico Arthur Schlesinger per John Fitzgerald Kennedy e l’avvocato Murray Chotiner per Richard Nixon prima. Poi con due figure più professionalizzate, come due consulenti politici formati proprio per lavorare a contatto con posizioni esecutive: parliamo di James Carville, al servizio di Bill Clinton, e di Karl Rove, stratega repubblicano e artefice della presidenza di George W. Bush.
Con Steve Bannon si era tornati un po’ indietro. Non è un professionista come gli ultimi due. Ma un self made man con un retroterra molto americano. Di famiglia irlandese cattolica e dotato di una solida cultura classica, prende un master in business ad Harvard, l’ateneo che meglio di tutti gli altri rappresenta il privilegio delle classi agiate e di origine anglosassone. Poi ha una vita ricca di lavori diversi tra di loro: ufficiale di marina, dirigente di Goldman Sachs, produttore e regista cinematografico di documentari e fondatore nel 2007 di un portale di destra insieme ad Andrew Breitbart chiamato appunto Breitbart, definito “l’Huffington Post conservatore”.
Ma era qualcosa di più. Non la tradizionale destra che mischiava neoliberismo e pensiero evangelico conservatore. Una destra più connotata in senso nazionalista del tradizionale messaggio dei repubblicani. A suo modo più vicina alle destre europee. E trova terreno fertile dopo l’elezione alla presidenza di Barack Obama, visto come il dissolutore della forza degli Stati Uniti, in Patria e nel mondo. Per batterlo Bannon cerca un combattente da schierare. Vorrebbe fosse Sarah Palin, ex candidata vicepresidente nel 2008 e paladina del Tea Party. Ma lei finisce ben presto la sua carriera politica per andare poi a concorrere, in anni più recenti, nell’edizione americana del Cantante Mascherato. Lo stratega invece individua il suo campione in un tycoon newyorchese, un tempo ritenuto vicino ai democratici, Donald Trump, che da anni trova conferme ai suoi pregiudizi in campo razziale dagli articoli di Breitbart. E nell’agosto 2016, quando la campagna del candidato repubblicano è in panne, ecco arrivare Bannon, il deus ex machina della più grande sorpresa elettorale degli ultimi cinquant’anni.
Quando il futuro presidente viene accusato di molestie, ecco pronta una conferenza stampa con le accusatrici storiche di Bill Clinton. Quando tutti danno Trump per sconfitto, lui punta su quelle aree tradizionalmente democratiche che hanno visto una forte deindustrializzazione e sostiene che è a causa delle politiche obamiane. Se l’apporto operaio all’elezione di Trump è stato fortemente ridimensionato, di sicuro quel sostegno necessario a Hillary Clinton è mancato. E questo anche grazie alle retorica svilente di Bannon nei suoi confronti: vista come la leader dei globalisti che ha reso l’America un cumulo arrugginito di ruderi post-industriali.
Trump prevale di poco in tre stati che avevano votato democratico per più di vent’anni. Bannon crea il suo mito: oscurando sia l’interferenza russa sia gli ostacoli al voto posti dai governatori repubblicani di Michigan e Wisconsin nei confronti delle minoranze. Ma non solo, rilancia. Nella sua nuova veste roboante di “Capo stratega della Casa Bianca” dichiara di essere colui che distruggerà “lo stato amministrativo” e diventerà il campione “dei lavoratori”. Non si spiega però come mai viva nel lusso, abbondantemente finanziato da magnati come Robert Mercer, e di come le politiche protezioniste propugnate dalla Casa Bianca vengano viste con favore da alcuni imprenditori e mai dai sindacati.
Ma anche quando viene licenziato dallo stesso Trump, stufo dei suoi continui litigi con gli altri membri dello staff, Bannon vuole dimostrare di essere ancora quello con il tocco magico. Nelle elezioni suppletive per uno dei due seggi del Senato in Alabama, porta alla vittoria l’ex giudice Roy Moore, un estremista religioso con forti venature teocratiche. Non solo: Moore ha anche precedenti per molestie. Su minori. A sorpresa, vince il candidato democratico Doug Jones. Per pochi voti, come Trump nel 2016. Per l’establishment repubblicano è l’ora di dargli il benservito.
Bannon si sposta in Europa e tramite un’associazione prende in gestione la Certosa di Trisulti, per preparare una nuova classe dirigente sovranista. Piccolo problema: i sovranisti tendono a non andare molto d’accordo tra di loro, se non sull’obiettivo di abbattere l’ordine mondiale liberal. Il suo “The Movement” è un flop. Elegge solo un eurodeputato. Ma Bannon comunque viene ricevuto in modo caloroso sia da Giorgia Meloni che da Matteo Salvini, che credono di poter sfruttare il suo tocco magico. Ma come commentò un esponente francese vicino a Marine Le Pen: “Difficile in Europa dare fiducia a un nazionalista americano”. La sua associazione viene estromessa da Trisulti. “The Movement” chiude bottega. Cerca anche di far qualcosa nel midterm americano del 2018, ma ai suoi comizi sono presenti più giornalisti e curiosi che elettori. Fino all’arresto finale per aver lucrato proprio su una delle idee di Trump, quel muro che avrebbero dovuto pagare i messicani e che invece, qualora venisse portato a termine, pagheranno i contribuenti americani. Magari potrebbe uscirne bene, dal punto di vista giudiziario. Ma ormai la sua influenza è nulla. Inferiore a quella del quieto Stephen Miller, consulente del presidente sull’immigrazione ed estremista di destra che è rimasto nella stanza dei bottoni sin dall’inizio. Senza voler far credere di ribaltare il tavolo globale, ma agendo nell’ombra. Cosa che Bannon, a differenza di tutti gli altri consulenti, non ha mai saputo fare.