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A Cannes stanno ignorando la questione palestinese?

Tra il cortometraggio sul MeToo francese e lo sciopero dei precari, doveva essere un Festival infuocato. Invece la sempre politicizzatissima Croisette quest’anno è stranamente silente. E l’unico atto simbolicamente forte resta il vestito “pro Pal” di Cate Blanchett

Foto: Marc Piasecki/FilmMagic via Getty Images

E pensare che sarebbe dovuto essere uno dei Festival di Cannes più politici di sempre. O meglio, di base, i motivi, c’erano tutti: da una parte il #MeToo che sta sconvolgendo il cinema francese, sulla scia delle denunce di abusi arrivate dopo il cortometraggio Moi aussi di Judith Godrèche, che ha aperto la sezione Un certain regard e per cui ci si aspettava una polveriera; dall’altra, il grande sciopero dei precari del Festival, che con le loro rivendicazioni sindacali fanno luce su quanto Cannes, dal punto di vista delle tutele per i professionisti, faccia acqua; in mezzo, soprattutto, la questione di Gaza, con la Palestina che ha un solo film nella selezione (To a Land Unknown di Mahdi Fleifel, una storia di due rifugiati ad Atene), ma chissà quanto ne parleranno attori e addetti ai lavori. No? No.

Le immagini di Cate Blanchett sul red carpet con indosso un abito con i colori della bandiera della Palestina – il bianco, il nero e il verde, il rosso è del tappeto – hanno avuto l’effetto, paradossale, di amplificare il silenzio altrui. «Sono una testimone. Questa guerra continua a causare migliaia di vittime innocenti. Non posso chiudere gli occhi», ha detto lei. Peccato che tutto intorno la questione di Gaza è un buco nero, e sui social ovviamente la cosa non è sfuggita, visto che già da giorni girava un hashtag, #blockout2024, con cui boicottare chi resta in silenzio. Pochi hanno risposto: Omar Sy, che è in giuria, ha rilanciato un appello per il cessate il fuoco, «perché non c’è niente che giustifichi l’uccisione di bambini a Gaza o in nessun altro luogo»; Leila Bekhti ha sfilato con una spilla a forma d’anguria, simbolo della resistenza palestinese; Laura Blajman-Kadar, sopravvissuta al 7 ottobre, e Philippe Torreton hanno invece mandato un pensiero agli ostaggi in mano ad Hamas.

Un po’ poco, s’intende, per un Festival storicamente politico e politicizzato, in cui attori e addetti ai lavori non hanno mai mancato di dire la loro, anche in tempi molto recenti. Per ora, invece, pare l’abbia vinta il direttore artistico Thierry Frémaux, che nella conferenza stampa d’apertura aveva ribadito che «a Cannes la politica deve restare sullo schermo», sviando ogni domanda su questioni scomode – sugli scioperi, per esempio, si era limitato a un «speriamo si trovi un accordo, nessuno qui vuole uno sciopero» – e sminuendo oltretutto l’influenza politica delle pellicole in concorso, come nel caso di uno dei film di quest’anno, The Apprentice, che racconta il lato oscuro dell’ascesa di Trump. Ecco, tirando in ballo il precedente di Bush, ha sostenuto che non intaccherà in nessun modo l’esito delle elezioni degli Stati Uniti.

Dietro questo travestimento da pesce in bottiglia c’è una linea: basso profilo ed evitiamo danni, gli argomenti sono bollenti ed esporsi, per dire, per la Palestina può creare problemi (l’abbiamo visto ieri, quando alcuni Paesi dell’Unione Europea l’hanno riconosciuta come Stato, e non è andata liscissima), può significare farsi dei nemici e in generale trasformare Cannes in qualcosa di più grande di ciò che è, e che lui vorrebbe che restasse, cioè un festival di cinema e basta. E per carità, dal suo punto di vista può anche starci un atteggiamento del genere: non è certo per le idee dei suoi dirigenti che il Festival ha veicolato da sempre messaggi di tipo sociale; semmai, per la capacità di ospiti e concorrenti di alzare la voce, non farsi dettare delle regole di comportamento, disobbedire. Come dimostra Blanchett, è proprio seguendo quelle dinamiche che la protesta si sente meglio.

Questo non significa, chiaramente, che gli attori debbano esporsi forzosamente per una causa a cui non credono, ma è ovvio che questo silenzio rappresenti un’anomalia statistica, sia per quanto riguarda la storia di Cannes e sia per ciò che sta succedendo, nel frattempo, nel resto del mondo del cinema, dove invece la questione della guerra è più sentita. Per cui, piuttosto che farsi imporre la linea da Frémaux, è lecito pensare semplicemente che, oggi, parlare di Palestina in un contesto del genere non convenga a nessuno: non è che gli attori non abbiano idee in merito, è che preferiscono non farle sapere, tra chi sui social gli chiede di esporsi e chi, dal festival, preferisce il silenzio. E questo, oltre che di cos’è diventato lo spettacolo in generale, è indicativo anche di dove è arrivato il dibattito stesso su Gaza in queste settimane.

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