Rolling Stone Italia

Barbara Baraldi: «Il mio Dylan Dog non sarà politicamente corretto»

La nuova curatrice dell’Indagatore dell’Incubo ci spiega cosa cambia (e cosa no) in uno dei fumetti più amati dai lettori. E nel segno di Tiziano Sclavi «non sarà mai un supererore»

Scrittrice e fumettista fra le più prolifiche e apprezzate, si muove a cavallo fra noir, thriller e horror, ma è anche una «darkettona in un paesino minuscolo della Bassa emiliana» dove, ci ha confessato, «soffrivo di timidezza cronica, facevo fatica ad approcciarmi con gli altri e i miei amici vivevano nei miei libri e nei miei fumetti».

Barbara Baraldi, scelta da Sergio Bonelli Editore come nuova curatrice di Dylan Dog, sembra quasi uscita lei stessa dalla penna di Tiziano Sclavi, lo storico creatore dell’Indagatore dell’Incubo. Per questo il ruolo sembra calzarle a pennello, anche se nelle sue risposte è presente ancora un po’ di stupore. Quando la incontriamo per farci spiegare cosa cambierà (e cosa no, mai) in uno dei fumetti più amati dai lettori, non parla di scelte di marketing, non cita target di riferimento o ricerche di mercato, ma si concentra sul riportare «l’orrore in primo piano» andando a selezionare soggetti «nell’ottica di ciò che possono trasmettere a livello emotivo», incoraggiando gli sceneggiatori «a dialogare con le proprie ossessioni» e i disegnatori «a lasciarsi andare alle visioni più ardite». Ancor di più, sottolinea, visto che viviamo in un’epoca senza filtri attraverso gli smatphone, dove però «l’orrore esistenziale resta sempre quello che fa più paura» e avere fra le mani Dylan Dog rimane a tutt’oggi «quasi come sottoporsi a una seduta di psicanalisi».

Dopo aver ideato la saga di Aurora Scalviati, la profiler che fa indagini (guarda caso) fuori dalle regole imposte alle forze dell’ordine, affrontato in un libro il tema dell’intelligenza artificiale già tre anni fa, essersi cimentata nel romanzo con la «strafottente e timida» Janis Joplin, ora Baraldi sembra di fronte alla sfida più difficile e nello stesso tempo affascinante: fare i conti con i propri incubi per esorcizzare anche quelli degli altri. Ma su un aspetto è certa che il “suo” Dylan Dog non cambierà rispetto al passato: «Non sarà politicamente corretto, non è nel suo Dna».

Barbara Baraldi, la nuova curatrice di Dylan Dog

Barbara Baraldi, prima di passare a Dylan Dog ricordiamo che sei una delle più prolifiche e originali scrittrici che si muove, in particolare, tra noir, thriller e horror. Qual è lo stato di salute di questi generi in Italia?

In media, direi buono. Sia in libreria che al cinema, dove mi fa piacere notare che l’horror è ancora in grado di riempire le sale. E non parlo solo dei titoli stranieri. Anche la scena italiana è in ascesa, sia dal punto di vista creativo che commerciale.

Dopo l’avvento del digitale ora siamo in piena ascesa dell’IA. Tu in Sentenza artificiale, un thriller distopico, avevi già affrontato il tema dell’etica dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari. Come pensi influirà sulle nostre vite e sul mondo del lavoro nei prossimi anni?
A ogni rivoluzione tecnologica, il mondo del lavoro subisce uno scossone. Purtroppo, alcuni mestieri scompariranno così come li conosciamo ora, ed emergerà la necessità di nuove figure professionali, soprattutto a livello di supervisione e revisione dei risultati generati dalla IA. Del resto, persino gli sviluppatori di ChatGPT sostengono già la necessità di regolamentare il settore, proprio per le criticità sulle questioni etiche. Ma c’è un aspetto in cui la IA è lontanissima dall’imitarci ed è la creatività.

Uno dei personaggi più noti che hai creato è la profiler Aurora Scalviati. Anche lei, negli anni, ha dovuto tenere conto delle nuove tecnologie che fanno parte delle nostre vite?
Proprio come Dylan, anche Aurora vive nella contemporaneità. In un thriller, poi, è essenziale rimanere aggiornati sulle tecnologie di assistenza alle indagini, a cui i lettori sono sempre molto attenti. Come valore aggiunto di ogni indagine della Scalviati, c’è poi l’aspetto filosofico dietro le vicende, che per un’indagatrice della mente si è rivelata essenziale.

A parte i tuoi libri, che autori giovani o promettenti ci consigli di tenere d’occhio?
Amo alla follia Tiffany McDaniel. I suoi romanzi che mi hanno stesa: Il caos da cui veniamo e L’estate che sciolse ogni cosa.

Un altro settore nel quale ti sei sempre cimentata è il fumetto. Qual è la difficoltà maggiore di applicare i propri scritti a quest’altra forma di espressione?
Quando scrivo procedo a visioni, come se un film mi passasse davanti agli occhi. Quindi, nello scrivere un romanzo o una storia a fumetti devo solo cambiare registro espressivo, tenendo bene a mente che nel romanzo il destinatario è il lettore, mentre per una sceneggiatura è “in prima battuta” al disegnatore che devo trasmettere atmosfera, azioni e suggestioni. Se questa alchimia funziona, il lettore percepirà come una cosa sola disegni e dialoghi.

Ultimamente hai aggiunto, fra le varie esperienze, quella del romanzo biografico. Con Il fuoco dentro hai ricostruito l’esistenza breve ma fulminante di Janis Joplin, una vera icona della musica. Cosa ti ha colpito di lei tanto da spingerti a dedicarle un libro?
Il fatto che la conoscessi soltanto in modo superficiale, tra Club dei 27, canzoni e frasi più famose. Per narrare la sua vicenda, sono quindi partita da un punto di vista neutrale. Ho letto le biografie e le sue lettere, cercato ogni intervista e video dell’epoca, ho scavato ossessivamente alla ricerca della sua voce e, durante la stesura, sono stata sempre molto attenta a non giudicarla mai. Curiosamente, la forma del romanzo mi ha aiutato a far uscire ancora di più la verità: rispetto a una biografia, infatti, in un romanzo si possono fare emergere le sfumature, le intenzioni, e non solo i fatti.

Alla fine della stesura, hai capito qualcosa su Janis Joplin che ti ha stupita?
Credevo che Janis fosse una persona molto diversa da me. Dopotutto, in pubblico si mostrava così estroversa, quasi strafottente. E invece ho trovato un’anima affine. Come me, anche lei era in realtà molto timida, viaggiava sempre con un libro in borsa e… amava i fumetti.

Nel 2012, invece, esordisci come sceneggiatrice di Dylan Dog con Il bottone di madreperla disegnato da Paolo Mottura. Che esperienza è stata, la prima, con l’indagatore dell’incubo?
Proponevo soggetti che mi venivano regolarmente rifiutati. È stato allora che ho capito che per scrivere Dylan dovevo dare qualcosa di mio, di personale. Colleziono fin da bambina bottoni di madreperla. Ai tempi ne tenevo uno sempre in tasca come portafortuna. Li conservavo all’interno di barattoli di vetro, nel mio appartamento, quando nel 2012 è arrivato il terremoto dell’Emilia. La prima volta che sono rientrata, li ho trovati sparpagliati sul pavimento, in mezzo alla devastazione. Dopo due mesi, la mia storia è uscita in edicola. È stato surreale: nella prima tavola, che avevo descritto circa un anno prima, ho ritrovato la stessa scena. Forse, è stato proprio in quel momento che ho capito una volta per tutte che Dylan era nel mio destino.

Immagino che sia stata una bella emozione anche partecipare al progetto editoriale di Jenny, ispirato alla canzone Jenny è pazza di Vasco Rossi.
Ho avuto completa libertà, anche sulla scelta della canzone. E io non potevo che scegliere la mia preferita di sempre. Quando ho presentato il soggetto, ho trasgredito alla regola per cui si dovrebbero presentare le azioni, più che trasmettere emozioni, perché sapevo che lui l’avrebbe letto e ci tenevo che comprendesse le mie intenzioni. Quando l’albo è uscito, Vasco mi ha taggata personalmente su Instagram per raccontare il suo rapporto con la depressione. Mi sono commossa.

Poi il 4 maggio di quest’anno è arrivata la tua nomina a curatrice della testata Dylan Dog. Te l’aspettavi?
Non me l’aspettavo. C’erano nomi eccellenti in ballo, io sono sempre stata una sorta di outsider, sia nel fumetto che nella narrativa, nei quali non sono mai riusciti a incasellarmi. Però sapevo che le mie storie piacciono a tanti lettori, che in questi anni non mi hanno mai fatto mancare “feedback emozionali” post-lettura. La prima cosa che ho fatto è stata chiamare mio fratello, noi siamo in quattro, e io sono la più grande, che è un “dylaniato” come me. Poi, siccome sono anche una persona pragmatica, ho iniziato a riflettere su una storia per inaugurare quella che è stata soprannominata “La Quinta Stagione” dell’Indagatore dell’Incubo, e che uscirà in occasione del Lucca Comics.

Nella tua presentazione hai detto: «Riporteremo l’orrore in primo piano». In che modo intendi riuscirci?
Selezionando le proposte di soggetto nell’ottica di ciò che possono trasmettere a livello emotivo, una volta realizzate. Incoraggiando tutti gli sceneggiatori a dialogare con le proprie ossessioni, e i disegnatori a lasciarsi andare alle visioni più ardite. Cerco storie che esplorino l’inconscio, il rimosso. Ricordando che l’orrore esistenziale resta sempre quello che fa più paura.

Rispetto al passato, però, siamo sempre più abituati all’orrore. Attraverso i social e le piattaforme di messaggistica qualsiasi cosa ci arriva sui nostri smartphone senza filtri. Perché rifugiarsi in Dylan Dog può ancora risultare catartico?
Curiosamente, penso che sia il contrario. Siamo bombardati dall’orrore tramite tutti i media, ma abbiamo sempre meno strumenti per elaborarlo. Pensa al dopo-pandemia e alla crescita esponenziale di persone che soffrono di ansia, attacchi di panico e condizioni mentali in generale. Un fumetto come Dylan Dog ci permette di rapportaci alla paura in un ambiente controllato, per aiutarci a elaborarla. Per questo, per me, scrivere Dylan Dog, così come leggerlo, è quasi come sottoporsi a una seduta di psicanalisi.

Un’altra promessa che hai fatto è che sarà «tutto sulla pista tracciata da Tiziano Sclavi». Quali sono lo stile e i valori che il suo ideatore ha dato al personaggio e sono irrinunciabili?
Tiziano ha scritto un personaggio perfetto proprio per le sue imperfezioni. Imitarlo è impossibile e scrivere Dylan, oltre che difficilissimo, è anche una grande responsabilità. La scrittura di Tiziano dialoga con la dimensione onirica, simbolica, persino filosofica. Noi autori dobbiamo tenere conto della sua lezione, mantenendo sempre alta l’asticella delle emozioni, sorprendere, esercitare la meraviglia. E affidarci all’allegoria, che è un potentissimo strumento per descrivere il presente.

Che rapporto hai con Tiziano Sclavi?
L’ho conosciuto nel 2016, in occasione dell’uscita de Gli anni selvaggi, un albo scritto a ritmo di rock’n’roll che esplorava una parte sconosciuta del passato di Dylan. Da allora ci sentiamo regolarmente e una volta all’anno vado a trovare lui, la moglie Cristina e i suoi sette bassotti nella loro casa nel bosco. È stato il primo a farmi le congratulazioni per la curatela e, da quel momento, il confronto si è intensificato, soprattutto a livello creativo, per discutere dei punti di forza e di debolezza di ogni storia che sto pianificando.

Mentre il personaggio del fumetto rimane sempre un uomo fra i 32 e i 35 anni e il tempo per lui non sembra scorrere, nella nostra società viviamo un’epoca dove tutto ciò che è pubblico deve fare i conti con nuove sensibilità. C’è chi lo chiama “politicamente corretto”, chi invece “l’era della suscettibilità”. Dylan Dog si è adattato a questi cambiamenti?
Dylan è sempre stato il più contemporaneo tra i fumetti “popolari” italiani, sempre che ancora esista una distinzione tra fumetto popolare e non. Continuerà a stupire per la prospettiva inaspettata da cui osserva il nostro mondo. Di certo, non sarà politicamente corretto, non è nel suo Dna. Ma Dylan è sempre stato inclusivo: ha sempre parlato ai “mostri”, ai “diversi”. Persone come me, insomma, che ero l’unica darkettona in un paesino minuscolo della Bassa emiliana, soffrivo di timidezza cronica, facevo fatica ad approcciarmi con gli altri e i miei amici vivevano nei miei libri e nei miei fumetti preferiti. Sono sempre stata considerata “strana”, ma leggendo Dylan mi sentivo casa.

Dylan è quello che una volta si sarebbe definito uno “sciupafemmine”. È una caratteristica che continuerà a mantenere anche dopo l’ondata di MeToo?
Dylan si innamora. Ogni singola volta. E continuerà a farlo… e a essere lasciato. Qualcuno potrebbe definirlo “sciupafemmine” ma Dylan, in realtà, è sfortunatissimo in amore: il destino gli si accanisce sempre contro. Per un motivo o un altro viene sempre mollato, o le sue fidanzate muoiono. A volte si rivelano pericolosissime criminali. Se c’è una lezione che dovremmo imparare dal MeToo è proprio l’importanza del dialogo tra i generi, un dialogo che sulle pagine di Dylan non mancherà mai.

In altre caratteristiche è invece perfettamente in linea: non beve, non fuma, è vegetariano. C’è qualcos’altro che lo rende, in alcuni aspetti, avanti sui tempi?
Dylan non è in linea. Non è alla moda. Ha degli ideali molto forti, che lo spingono a opporsi sia al conformismo che al conformismo dell’anticonformismo. È unico perché è umano nel senso più positivo del termine. A tratti, persino indecifrabile. Ha precorso i tempi fin dal 1986.

Luca Barbareschi ultimamente ha dichiarato che nel cinema «oggi c’è obbligo nelle writing room in America di mettere un nero, un ispanico, un lesbico». Anche voi in sceneggiatura sentite di inserire dei personaggi o delle situazioni che rispondo a queste logiche?
Tutti i personaggi che scriviamo, li scriviamo nel rispetto della storia che abbiamo l’urgenza di raccontare. Nel rispetto del mondo che abbiamo intorno, seguendo la loro voce, attraverso la lente dell’allegoria, senza fare distinzioni di genere, orientamento sessuale o colore della pelle.

Un Dylan Dog di colore o con altri gusti sessuali lo vedremo mai, come per esempio è accaduto con la Sirenetta Disney?
Dylan è uno solo. Il personaggio così com’è stato concepito da Tiziano Sclavi. Non è un supereroe, né una creatura mitologica. È un essere umano con i suoi punti di forza e le sue debolezze.

Neanche Groucho dovrà fare un po’ più di attenzione alle sue battute?
Farà sempre attenzione che siano divertenti. Ricordando che non c’è alcun divertimento nell’offendere qualcuno: quello lo fanno i bulli.

Dietro al successo di Dylan Dog, oltre all’orrore che deve affrontare e al suo proverbiale scetticismo verso l’occulto, c’è anche una componente legata al fascino personale. Si potrebbe definire un sex symbol?
D’accordo che Dylan è nato negli anni Ottanta, ma il concetto di sex symbol, credo, è stato sorpassato dai tempi.

Dicci la verità, il fascino di Dylan ha conquistato anche te?
Alcune mie coetanee erano innamorate di Dylan. Io l’ho sempre considerato come un fratello, con cui condivido qualche fobia e un incommensurabile amore per l’incubo.

Iscriviti