Lo scandalo scommesse – definizione impropria per più di un motivo – che ha travolto la serie A è al centro delle attenzioni dei media nazionali.
Il meccanismo è quello di sempre: mostri sbattuti in prima pagina, nessuna cautela in attesa di eventuali processi e condanna moralistica da parte dell’opinione pubblica. A questi elementi universali se ne aggiunge un altro che ha caratterizzato il caso degli ultimi giorni, ovvero l’attesa morbosa per gli altri nomi dei presunti giocatori d’azzardo che costituirebbero la famigerata rete criminale che infanga il calcio italiano.
Il conto alla rovescia che accompagna la rivelazione delle altre personalità coinvolte, circostanza perfetta per le tendenze voyeuristiche del pubblico, diventa ancora più grottesca perché affidata a un personaggio, Fabrizio Corona, passato dall’essere un meme della galassia trash dei social a neo-giornalista di inchiesta, guadagnando un’autorevolezza inedita che ha reso tutta la vicenda un capolavoro dell’avanspettacolo.
Il quadro generale è deprimente, ma al ridicolo non c’è mai fine ed è per questo che attorno le figure di Zaniolo, Tonali e Fagioli si è creata questa narrazione paternalistica sui pericoli della ludopatia che è passata presto dallo stucchevole all’irritante. I giocatori coinvolti nell’indagine sono diventati gli esempi negativi per denunciare il pericolo della dipendenza da gioco d’azzardo, una dipendenza che è stata inevitabilmente banalizzata e buttata in caciara dal dibattito pubblico. Giornali e opinionisti si sono spesi in diagnosi non richieste sull’argomento, tra questi anche lo stesso Corona che fino a pochi giorni prima dello scoop pubblicizzava il suo gruppo Telegram per le scommesse calcistiche (nello specifico, si suggerivano “giocate sicure”).
Non si tratta solo di moralismo: da una parte c’è chi rincorre la tendenza per minimizzare i reati di cui i calciatori si sarebbero macchiati – ludopatia come strategia difensiva particolarmente appetibile in sede legale – mentre l’area più forcaiola, quella che invoca il carcere ancora prima delle prove, vorrebbe sfruttarla come aggravante.
A unire i due fronti c’è la tendenza comune ad usare lo spauracchio della ludopatia per lavarsi la coscienza. In Italia il gioco d’azzardo non è una devianza, è una consuetudine e come tale è accettata. Stando a una ricerca diffusa dall’Osservatorio Nomisma, solo nel 2020 il volume complessivo del gioco d’azzardo ha raggiunto gli 88,38 miliardi di euro, 11 di questi provengono dalle scommesse sportive. Secondo questa fonte, sempre nel 2020 il 42% dei ragazzi tra i quattordici e i diciannove anni ha giocato d’azzardo almeno una volta, il 9% dei casi in questione ha sviluppato pratiche di gioco problematiche subendo ripercussioni negative sulla sfera socio-emotiva e relazionale.
Se per la stampa il trio Zaniolo, Tonali e Fagioli rappresenta l’apripista a un comportamento malsano che rischia di prendere largo tra le generazioni più giovani – questa è la linea editoriale di molti commentatori che si sono espressi sulla vicenda – basta lo studio in questione per ricordare che il problema, diffusissimo, non nasce e non muore con lo scoop sulle scommesse.
Una precisazione apparentemente scontata, ma il racconto dell’ultima settimana dimostra che non è così. I mostri, però, fanno comodo e la caccia alle streghe va di pari passo con l’approccio adottato dalla politica per contrastare il fenomeno della ludopatia. Era il 2018 quando il governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte (all’epoca, nella sua veste sovranista) in uno dei tanti tentativi di moralizzazione collettiva si occupò del tema con l’art. 9 del decreto Dignità, ovvero il divieto “di qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d’azzardo, comunque effettuata e su qualunque mezzo.” L’articolo in questione è una rappresentazione perfetta di come l’Italia affronta l’argomento: individuare il nemico (l’induzione al gioco da parte degli agenti esterni), legge ad hoc sulla scia dell’emotività e grande spot governativo autocelebrativo. Anche i risultati della suddetta azione firmata dal duo Cinquestelle-Lega sono l’ennesimo esempio di una classica parabola italiana.
Come riportato da un articolo sul tema di Maurizio Crippa per Il Foglio, con l’art. 9 del decreto Dignità si è semplicemente passati dall’avere le società di scommesse sportive come sponsor dichiarati in campionato – il logo di Bwin sulla maglia del Milan è un esempio storico – alle pubblicità dei casino online legali durante le partite, anche se sotto la forma di siti di “news sportive”. Le analogie tra il decreto di cinque anni fa e il caso scandalistico di questa settimana si sprecano, in entrambi i casi il problema viene affrontato marginalmente, cercando capri espiatori piuttosto che agire partendo dalle basi del problema. Nessuno è interessato ad aprire un discorso serio sulla ludopatia – termine inevitabilmente depotenziato dall’abuso che ne sta facendo il dibattito pubblico – accanirsi su tre ragazzi finiti al centro del polverone mediatico è più semplice. Più semplice e molto più comodo. Gratta e vinci, Superenalotto e scommesse (calcistiche e non) sono disciplinate e socialmente accettate. Sono i calciatori ventenni il problema.