Premessa: scrivere di suicidi sui giornali è sempre un grosso rischio. È il motivo per cui è stato codificato un principio chiamato “effetto Werther”, basato sul postulato secondo cui le notizie che riguardano la morte di una persona per suicidio – soprattutto quando si tratta di una persona famosa – possono spingerne altre a uccidersi; ed è anche il motivo per cui, alla fine di questo articolo, troverete una serie di numeri utili per la prevenzione dei suicidi.
Il triste caso della studentessa 19enne di Milano, però, non può passare in sordina: deve stimolare necessariamente una riflessione che tocca vari temi, dai risvolti negativi di un modello universitario sempre più competitivo ai paradigmi di successo su cui si fonda la nostra società. Anche i numeri a nostra disposizione confermano un quadro delicatissimo: il biennio pandemico che ci siamo lasciati alle spalle ha agito da catalizzatore di un malessere diffusissimo: secondo i più recenti dati Istat disponibili, aggiornati al 2019, si contano circa quattromila suicidi all’anno: di questi, il 13% – circa 500 – riguardano gli under 34. Sempre secondo l’Istat, soprattutto tra i giovanissimi, il senso di insoddisfazione sta diventando sempre più sistemico: nel 2021 in Italia 220mila ragazzi tra i 14 e i 19 anni si dichiaravano insoddisfatti della propria vita e in una condizione di scarso benessere psicologico.
Sono tematiche sentitissime dalla stessa popolazione studentesca: ieri, intervistati da L’Espresso, i membri del collettivo universitario Cambiare Rotta hanno spiegato che «A 20 anni non si può morire chiedendo scusa per i propri fallimenti», parlando di «Un gesto estremo che conferma come questo modello di eccellenza sia un modello che uccide, come questo sistema sia fallimentare per gli studenti» – è bene specificare che, stando a quanto ricostruito, nel biglietto la studentessa ha fatto riferimento a questioni personali che non hanno a che vedere con l’università.
Questa ricerca di eccellenza ha finito per colonizzare lo spazio mediatico: sfogliando un quotidiano, è difficile non imbattersi in un ritratto dedicato all’ennesimo, giovanissimo “laureato prodigio”. Il problema, però, sta tutto nella narrazione che questa tipologia di racconti finiscono per normalizzare: un modello universitario in cui il merito finisce per essere incarnato dalla velocità spasmodica con cui vengono bruciate le tappe; una gara tra la quintessenza degli sprinter dell’acquisizione di crediti che, nel racconto pubblico, vengono calati nei panni di modelli a cui qualsiasi studente idealtipico dovrebbe tendere: degli esempi positivi, insomma.
Dopodiché, però, c’è la realtà, quella in cui le condizioni di partenza non sono uguali per tutti, iscriversi a un’università privata è un’utopia per la maggior parte delle persone e, soprattutto, incontrare delle difficoltà (lungaggini burocratiche asfissianti, blocchi psicologici, esami difficili da superare) rientra nello spazio della norma; quella in cui, per intenderci, la laurea non dovrebbe essere soltanto il traguardo da tagliare per un “inserimento veloce nel mondo del lavoro”, ma anche un percorso di arricchimento personale e collettivo, un’attività che, per dirla con la nostra Costituzione, «concorra al progresso materiale o spirituale della società».
La competizione incarna ormai l’unico, vero spirito del tempo, e l’università non fa eccezione; abbellimento del curriculum a ogni costo, rincorsa sofferta del mito (nella stragrande maggioranza dei casi, irraggiungibile) dell’eccellenza e un percorso di studi che acquisisce sempre più i contorni della prova del fuoco: eccola, la nuova normalità. Forse, è arrivato il momento di cambiare narrazione.
E una narrazione che incentiva gli studenti a darsi da fare per laurearsi a 19 anni, be’, francamente di progressista ha ben poco: invoglia a prendere le cose di corsa, a stigmatizzare chi per un qualsiasi motivo dovesse finire nel circolo neo–dantesco dei “fuoricorso” (nella vulgata comune, il più delle volte farvi ingresso equivale ad acquisire lo status di fallito), ad aumentare a dismisura il dividendo di pressione sociale e, soprattutto, a trasformare un’esperienza formativa in un patema d’animo, aumentando esponenzialmente il peso delle aspettative dei genitori.
Se hai pensieri suicidi, ci sono diversi numeri a cui puoi riferirti per avere assistenza, come il Telefono Amico, aperto tutti i giorni dalle 10 alle 24. Puoi contattare un operatore allo 02 2327 2327 o, se preferisci, via internet, cliccando qui. Puoi anche fare uno squillo all’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22.