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Hammond, thriller e resistenza a pubblico ufficiale: addio a Roberto Maroni, leghista e bluesman

Tastierista del Distretto 51, primo ministro degli Interni non democristiano, militante riluttante e infine scrittore. Una volta diede un morso al polpaccio di un agente di polizia, inaugurando il suo periodo "punk". Ciao, Bobo

Foto dal profilo Facebook dei Distretto 51

Roberto Maroni è morto nella notte tra lunedì 21 e martedì 22 novembre 2022 a Lozza, in provincia di Varese, vittima di un brutto male che sembrava aver sconfitto ma che poi è tornato a chiudere i conti.

L’uomo chiamato Bobo da amici e nemici, nella sua vita, è stato tante cose, ma lui teneva soprattutto a dire di essere «un velista» e un «soul boy». In effetti va detto che la tenuta in giacchino di jeans e Ray Ban da Blues Brothers gli donava molto di più del solito completo con cravatta verde da leghista arrivato. Il suo gruppo musicale, i Distretto 51, è stato una mezza leggenda dei locali della Lombardia, all’inizio degli anni ’80: lui suonava l’hammond, e nelle foto dell’epoca sembrava divertirsi un casino. Gli appassionati possono trovare (a prezzi da usura nei mercatini e, più modestamente, gratis online) il mitico Live @ Molina del 2005, la registrazione di un concerto tenuto insieme a un coro gospel con la collaborazione del mitologico Vince Tempera. All’interno, cover di Bob Dylan, Marvin Gaye, Sam Cooke, Carole King, Bruce Springsteen. I feticisti, poi, possono andare a cercare un libro: Shot Gun Blues. La vera storia del Distretto 51, scritto da giornalista Gianni Beraldo ed edito da Macchione Editore. Il vero Bobo è lì, nelle dodici battute ripetute all’infinito del blues, tra una svisata di hammond e l’altra. Certo, le nebbie padane hanno poco a che fare con i fumi di New Orleans, ma, come si dice, conta il pensiero.

Il bluesman Maroni, per la cronaca e per la storia, ha avuto anche un periodo punk. Era il 1996 e la procura di Verona stava indagando sulla Guardia Nazionale Padana, sospettata di essere un’organizzazione paramilitare con l’obiettivo di minare l’unità nazionale. Un giorno la polizia arrivò a perquisire la sede leghista di via Bellerio a Milano e Bobo, come uno squatter, non voleva far entrare nessuno in divisa. Lo scontro finì con il già ex ministro degli Interni del primo governo Berlusconi portato via in Barella e denunciato per resistenza. Al processo, un paio di anni dopo, verrà fuori che Bobo aveva dato un morso al polpaccio di un agente.

Prima, ma comunque dopo essere stato amico e socio in affari di Umberto Bossi, consigliere comunale a Varese e avvocato della Avon («Dovevo rimanere lì», disse una volta a un giornalista), Maroni era passato alla storia per essere stato il primo capo del Viminale non democristiano della storia della Repubblica. Firmò, tra le altre cose, il famigerato decreto salva-ladri, quello che aboliva la custodia cautelare e faceva uscire gli incarcerati di Tangentopoli. Il giorno successivo disse di aver sbagliato, ma probabilmente non ci credeva davvero. Infatti, quando Bossi fece cadere il governo, Maroni era tra quelli che provarono a opporsi. La base leghista l’avrebbe linciato volentieri, ma, come spesso accade a destra, certe cose si dimenticano subito e Bobo «il traditùr» ci mise un attimo a riallinearsi e a riprendere saldamente le redini organizzative di un partito che vedeva nell’Umberto il leader carismatico e in Roberto la mente strategica. Il periodo successivo, fuori dal governo, l’ex ministro Maroni non fece una piega quando la Lega «fece la secessione»: lui non brindò con le acque del Po, anche perché sapeva benissimo che quella era solo una fase. Infatti, nel 2001, quando la destra rivinse le elezioni, Bobo tornò serenamente al governo come ministro del Welfare.

Fu un periodo duro: Marco Biagi, suo collaboratore, da tempo lamentava di ricevere minacce telefoniche e di non sentirsi abbastanza protetto. Maroni fece orecchie da mercante, Biagi venne freddato per strada dalle Nuove Brigate Rosse.
Dimenticata in breve la faccenda – Bobo è sempre stato bravo a passare vicino ai disastri senza tuttavia entrarci mai dentro davvero -, nel 2006, con un’intervista a Vanity Fair, il bluesman confessò di scaricare musica illegalmente da internet. Erano gli anni di Napster e di Emule, ed è facile immaginare il nostro mentre rovista negli archivi alla ricerca di oscuri bootleg di sconosciuti crooner del delta del Mississippi. Si troppo facile. La Fimi lo attaccò duramente, ma, col senno di poi, si può dire che la storia avrebbe dato ragione a Maroni: oggi, su internet, la musica è sostanzialmente gratis.

Tornato al ministero degli Interni nel 2008, di questo periodo si ricordano due decreti sicurezza e una polemica – invero molto matura – con Roberto Saviano, che lo attaccò in diretta accostando la Lega alla mafia. Dopo essersi rivolto all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Maroni chiese e ottenne di essere ospite nello stesso programma (quello di Fazio) per poter replicare. Molti, guardandolo, ebbero l’impressione di trovarsi davanti a un esemplare più unico che raro di leghista normale.

Finita anche quella esperienza, Bobo tornò a dedicarsi a tempo pieno al partito, fondò una corrente (i «barbari sognanti»), si candidò alla presidenza della Lombardia, vinse, e da lì gestì il disastroso tramonto di Umberto Bossi, tra il figlio «trota», i diamanti africani e una credibilità ormai ridotta al lumicino. Nel frattempo, da segretario federale, cercò di ripulire l’immagine del suo partito. Letteralmente: mitologica la volta che si fece immortalare con uno scopettone in mano a simboleggiare la sua volontà di ripulire la Lega da tutto lo sporco che aveva accumulato. E fu qui che gli venne l’idea peggiore della sua carriera: inventarsi una leadership nuova, non berlusconiana, giovane, in grado di portare il partito fuori dalle secche in cui era andato a incagliarsi. Così, Maroni prese un milanese con l’orecchino dalle millantate simpatie sinistroidi e ne fece un leader: Matteo Salvini, il suo candidato, sconfisse Bossi al congresso. In seguito Bobo se ne sarebbe pentito e avrebbe riallacciato i suoi rapporti col Senatùr, uomo in fondo capace di molte cose, anche di perdonare.

L’ultima impresa, la candidatura a sindaco di Varese, nel 2021, venne solo annunciata ma mai portata a termine. Fu Libero a svelare il perché: tumore al cervello.

I suoi ultimi mesi Bobo li ha passati a scrivere insieme all’amico Carlo Brambilla. A metà dello scorso ottobre, per i tipi di Mursia, è uscito il frutto di questa fatica: «Il Viminale esploderà», un divertente thriller di spionaggio. Protagonista è il giovane ministro degli Interni Roberto Macchi (ehm), che si ritrova coinvolto in un intrigo internazionale tra agenti vaticani, hacker russi e un’associazione segreta di stampo ultraconservatrice intenzionata a riportare indietro le lancette della storia. L’ultima fermata del bluesman, la sua risposta alla domanda su quante strade debba percorrere un uomo prima di potersi dire tale. Ciao, Bobo, ci mancherai.

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