I vecchi, i giovani, gli strani: geografia sociopolitica del Trump Bis | Rolling Stone Italia
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I vecchi, i giovani, gli strani: geografia sociopolitica del Trump Bis

Tra politica e cultura woke, abbiamo chiesto ad Alessandro Carrera, Direttore del Department of Modern and Classical Languages alla Houston University, che cosa aspettarci dall'evoluzione della "democratura" di The Donald

Donald Trump

Donald Trump

AP Photo/Evan Vucci

Il confronto tra Kamala Harris e Donald Trump ha reso palese non solo una spaccatura all’interno degli Stati Uniti, ma anche l’avvento di una nuova idea e forma di democrazia in cui i diritti e gli spazi di confronto si restringono radicalmente e in cui il potere politico e mediatico finiscono in mano a gruppi ristretti spesso a uso esclusivo di soli maschi bianchi.

 

Alessandro Carrera, Direttore del Department of Modern and Classical Languages alla Houston University, è un acuto e privilegiato osservatore della cultura e del costume americano, esercizio che ha sintetizzato nel suo ultimo libro, I vecchi, i giovani e gli strani. Biden, Harris, Trump e il destino del mondo (Sossella editore). Il volume è così non solo la cronaca di quanto avvenuto negli ultimi anni negli States, ma un compendio colto e puntuale sulla cultura, la politica e la vita quotidiana americana.

 

Dalle università ai luoghi della politica, dal cinema alla letteratura, Carrera utilizza gli strumenti della critica per leggere una società che all’alba del secondo mandato presidenziale di Donald Trump si appresta a un radicale cambiamento. Al di là degli aspetti più ridicoli e volgari dell’attuale Presidente, una probabile torsione da democrazia a democratura riguarderà pericolosamente tutto l’attuale Occidente liberale. Ne abbiamo parlato con l’autore, a partire proprio dagli strani al potere.

Alessandro Carrera

Foto: press

Gli strani hanno preso il potere, da dove parte l’onda lunga di Trump e in particolare del Trump politico?
Il populismo americano ha una storia e anche un eroe. È Huey P. Long (1893-1935), governatore della Louisiana e poi senatore. Era un feroce critico di Roosevelt, ma da sinistra, anzi da posizioni che per l’America erano di sinistra estrema, avanzate però in modo estremamente autoritario. Per alcuni era un eroe del popolo, per altri un fascista travestito. Nel 1935 fu ucciso da un medico di nome Carl Weiss, a sua volta eliminato subito dalle guardie del corpo di Long. Weiss era il genero di un giudice del quale Long voleva ad ogni costo impedire la rielezione. Sparò, ma può anche darsi che Long sia stato ucciso per sbaglio da una delle sue guardie del corpo, note come gli “spaccacranio”. Roosevelt adottò alcune delle sue proposte nella seconda metà degli anni Trenta, ma intorno a Long è sempre rimasta un’aura inquietante. Non si sa cosa avrebbe potuto diventare, se davvero avrebbe portato alle estreme conseguenze il suo populismo radicale, che consisteva in quella “redistribuzione della ricchezza” che per gli americani è già comunismo reale, oppure se avrebbe dato sfogo ai suoi impulsi autoritari, che peraltro erano parte del suo carisma.

 

Trump nasce in un contesto del tutto diverso, che è quello della celebrità mediatica, molto legata al suo reality show, The Apprentice, che con Trump come produttore, protagonista od ospite d’onore durò dal 2004 al 2015. Si noti che la NBC ruppe il contratto quando Trump, nel discorso in cui si presentava alla candidatura di Presidente, si espresse in termini offensivi nei riguardi degli immigrati dal Centro America. Oggi questo non accadrebbe più. Era stato progettato anche un seguito, The Apprentice: White House, che avrebbe trasformato la sua presidenza in un reality show. Non è mai stato realizzato, ma in pratica sì, perché Trump ha governato il paese come da un reality show e lo sta ancora facendo. L’importante è tenere desta l’attenzione dell’audience, se necessario scandalizzandola a ogni momento. Altre regole non ne ha, e questa le riassume tutte.

 

Esiste davvero una discontinuità tra quella che fu l’America di Clinton, di Obama e poi di Trump?
Certo che esiste, e non potrebbe essere più netta, però bisogna dire che i semi della rivolta populista che ha portato a Trump sono stati gettati allora. L’accordo di libero scambio con il Canada e il Messico firmato da G. Bush padre nel 1992 ed entrato in vigore nel 1994 quando Clinton era presidente è stato l’inizio. Clinton ha cercato di ammorbidirlo incrementando le protezioni per i lavoratori, ma non è bastato. Il NAFTA (North American Free Trade Agreement) non è mai stato l’equivalente della vecchia Comunità Europea – prima che diventasse Unione Europea – e nemmeno voleva esserlo, ma, a torto o a ragione, è considerato il primo passo dello smantellamento dell’industria manifatturiera negli Stati Uniti.

 

Durante la presidenza Clinton il capitale finanziario ha preso il sopravvento sull’industria e per qualche anno è sembrato che tutti potessero approfittarne, ma poi nel 2008 la bolla immobiliare è scoppiata e Obama si è trovato a doverla contenere. L’ha fatto, ma non ha punito nessuno dei responsabili, dimostrando così che ormai Wall Street era veramente intoccabile. Nel 2010 poi è venuta la disastrosa decisione della Corte Suprema, detta Citizens United, in base alla quale le corporations sono persone fisiche e come tali possono contribuire alle campagne elettorali. Da quel momento in poi, la democrazia ha cominciato a sfuggire di mano agli elettori, e i primi ad accorgersene sono stati proprio i repubblicani.

 

Il cosiddetto Tea Party, il movimento populista nato allora, era diretto soprattutto contro il Partito Repubblicano. Se Trump non l’avesse in qualche modo rilevato – come si fa con un’azienda in difficoltà ma che ha ancora del potenziale – prima o poi si sarebbe sciolto o sarebbe diventato una corrente repubblicana. Trump l’ha manipolato magistralmente, bisogna dire, fino a farne la sua base. Ci è riuscito con la promessa di porre fine al NAFTA, cosa che poi ha fatto nel 2020 – ma per sostituirlo subito con un altro accordo di scambio che non ha cambiato molto le cose – e con l’accusa a Obama di non essere americano, di essere nato in Kenya.

 

La modifica di un accordo commerciale non era sufficiente a mobilitare gli animi, ci voleva uno hook, un “gancio” che tenesse la base impegnata a discutere di una cosa palesemente falsa ma altamente simbolica, e che sfruttava proprio la “stranezza” di Obama, un po’ nero e un po’ bianco, nato alle Hawaii da un padre africano e cresciuto in Indonesia. A quel punto la base del Tea Party non pensava più al NAFTA, la questione era diventata l’illegittimità di Obama e la crescente legittimità di Trump come vero americano.

 

Quale è il bilancio della presidenza Biden secondo lei? Perché ha aperto il ritorno al potere di Trump?
Le cause sono moltissime, non ce n’è una sola, e non si può dire che le conosciamo tutte, ci vorrà ancora tempo. Biden è stato un presidente molto efficace, su questo non ho il minimo dubbio e penso che in futuro si capirà ancora di più. Ha guidato l’America fuori dal Covid, ha combattuto l’inflazione indotta dal Covid ma gradualmente, come si deve fare per non cadere nella deflazione (e questo per molti era troppo difficile da capire), ha iniziato un piano di opere pubbliche la cui portata non si vedeva da decenni, è intervenuto sul prezzo dei medicinali e sui debiti degli studenti universitari. Spesso il Congresso lo ha fermato, ma con altri quattro anni a disposizione avrebbe potuto realizzare riforme ancora più coraggiose. E ha difeso l’Ucraina come l’Europa da sola non avrebbe saputo mai fare. Ma non è stato capace di convincere l’opinione pubblica, non è stato carismatico (e il carisma è come il coraggio, se non ce l’hai non te lo puoi dare).

 

Nei quattro anni in cui è stato presidente, Trump è sempre riuscito ad avere più presenza mediatica di lui (complici i media, naturalmente, i quali sanno benissimo che Trump “tira” sempre). La colpa del pessimo ritiro dall’Afganistan è stata addossata tutta a lui, mentre l’accordo che ha riportato al potere i Talebani era stato firmato da Trump. Non è stato capace di frenare la furia vendicatrice di Netanyahu – cosa che ha generato un forte scontento presso l’elettorato giovanile – anche se la tregua che ora è entrata in vigore è stata preparata dal suo Dipartimento di Stato. Ma è caduto nell’errore di credersi indispensabile, e questo è davvero imperdonabile per un politico. Non si è ritirato in tempo dopo che tutto il mondo ha visto le tracce della sua senilità – c’erano motivi politici e organizzativi che rendevano difficile un ritiro improvviso, ma non sono motivi che interessano all’elettorato – e il risultato è stato un tramonto tristissimo, e un odio verso di lui da parte di mezza America che è completamente sproporzionato anche rispetto ai suoi errori.

 

Cosa cambia rispetto al primo mandato di Trump?
Tutto. Il mondo è più instabile di quanto lo fosse nel 2020, l’Ucraina non perde ma la Russia non vince, e viceversa; Gaza è distrutta ma Hamas c’è ancora, il pianeta è più caldo e la gente si beve il cervello guardando miliardi di video idioti.

 

Trump, da narcisista maligno qual è, pensa a vendicarsi non solo di tutti coloro che secondo lui gli hanno rubato le elezioni del 2020 ma anche di quelli come Anthony Fauci che durante il Covid davano alla gente un messaggio più realistico del suo. E i grandi tecnocrati, che fino a pochi anni fa sostenevano i democratici, adesso sono passati dalla sua parte. Non per convinzione politica, certamente no. Per puro opportunismo; perché vogliono abolire qualunque restrizione alle loro attività, mentre i democratici intendevano porre dei limiti al diffondersi selvaggio dell’Intelligenza Artificiale. Anche se con questo non voglio dire che ci sarebbero riusciti, o che le loro idee in merito fossero tutte buone.

 

Trump può portare al disfacimento dell’idea federale o in qualche modo dà voce a un’esigenza reale e concreta?
La risposta dei repubblicani di fronte ad ogni crisi interna è sempre la stessa: diminuiamo il potere della Repubblica Federale e diamo più potere ai singoli stati. Il calcolo elettorale è che ci sono più stati repubblicani che stati democratici; non in termine di popolazione, ma di peso elettorale. Se si dovesse votare in termini di popolazione, il Senato non avrebbe mai la maggioranza repubblicana.

 

L’indebolimento dello stato federale è la carota che viene fatta dondolare davanti al naso degli elettori degli stati fortemente repubblicani. Ma è più facile a dirsi che a farsi, perché gli stati repubblicani più poveri ricevono aiuti dallo stato federale grazie alle tasse pagate dagli stati democratici più ricchi, e i governatori repubblicani lo sanno benissimo. Tuonano contro lo stato federale ma non possono rinunciare agli aiuti che manda Washington.

 

In visita a Los Angeles dopo il recente incendio, Trump ha buttato lì che bisognerebbe sciogliere la Protezione Civile federale e affidarla ai singoli stati. Non che la FEMA, la Protezione Civile, sia perfetta, nessun organismo statale lo è, ma lo smantellamento sarebbe ancora più costoso che il tenerla in vita, e gli stati del Sud e del Midwest che sono più esposti ai tornadi e alle inondazioni sono quelli che della FEMA hanno più bisogno.

 

Quanto ha influito la cultura woke nella sconfitta democratica?
Le elezioni sono state decise soprattutto dall’inflazione e dalla paura dell’immigrazione. A livello mediatico, però, la questione woke ha influito moltissimo, soprattutto da quando ha toccato le scuole elementari e medie, che sono un terreno delicatissimo. La cultura woke, “risvegliata” alle ingiustizie sociali e determinata a combatterle con ogni mezzo è un’altra forma di populismo, anche se si presenta in maniera più colta. Ha le sue ragioni, ma come tutti i populismi ha travalicato gli obiettivi ed è diventata una pericolosa parodia di sé stessa.

 

L’impennata si è avuta nel 2020, dopo l’orrenda uccisione dell’afroamericano George Floyd. Che una reazione davanti al razzismo della polizia fosse necessaria non lo si discute, ma nel giro di pochi mesi ci si è accorti che i paladini del wokeism si stavano comportando come delle Guardie Rosse, non con la stessa violenza, certamente no, ma con la stessa ignoranza e la stessa presunzione di essere dalla parte della Giustizia Assoluta.

 

Quale sarà la reazione di Trump?
Ora Trump farà smantellare gli uffici che si occupano di “Diversity, Equity, and Inclusion”, che spesso, è vero, sono burocrazie inutili e gonfiate. Ma ci sono stati due fattori, nella sollevazione “wokeista”, che hanno davvero spaventato gli americani. Il primo è stato il grido che dopo l’assassinio di George Floyd si è alzato da parte di vari attivisti: “Defund the police!” Non intendevano abolire la polizia, bensì destinare parte dei soldi che vanno ad armare la polizia (anche con mezzi militari degni di un esercito di occupazione) ad attività di recupero sociale. Ma quelle tre parole, “Definanziamo la polizia!”, giustamente definite le più stupide parole mai pronunciate in lingua inglese, hanno terrorizzato la gente – intendo la gente che si fa terrorizzare se un nero ruba un detersivo ma non muove un dito se uno psicopatico fa strage in una scuola. Il secondo fattore è stato la politica iniziata dall’amministrazione Obama e continuata da Biden per il riconoscimento dell’identità di genere dei transgender.

 

La maggioranza della popolazione, lo si è visto, non era e non è pronta ad accettare che un ragazzo di quattordici anni, siccome è andato dai suoi insegnanti a dire loro che lui è una ragazza, da quel momento può fare la doccia con le ragazze e usare i loro servizi, e i genitori non lo devono nemmeno venire a sapere. Sto semplificando, ma la questione transgender ha veramente sconvolto i genitori, che nelle scuole hanno molta voce in capitolo, anche al di là di ogni valutazione realistica del numero dei casi di cui si parlava, e la destra è stata abilissima ad incrementare questo sbandamento. In pratica, la gente “normale” ha ascoltato le sparate assurde di Trump e ha concluso che Trump era più “normale” di quelli che dicono che il sesso non esiste e che non bisognerebbe neanche usare i pronomi “lui” e “lei”. Bisogna dire che dall’altra parte spesso si constatava un’ottusità non minore. Il risultato è che con i recenti ordini esecutivi di Trump i diritti dei transgender corrono gravi rischi.

 

Stiamo assistendo alla sconfitta del modello californiano intenso come quel mix progressista e tecnologicamente innovativo?
La California è quasi una nazione a sé stante, se si staccasse dagli Stati Uniti potrebbe essere l’ottavo membro del G7, e non è tutta uniformemente democratica, benché la supremazia democratica per il momento non sia in discussione. Soffre di cataclismi ambientali, ai quali è più esposta di altri stati, ed è anche lo stato dove la cocciutaggine woke può essere più dura da scalfire, ma non è a rischio di perdere la sua posizione di preminenza.

 

Che ruolo ha il Texas oggi? Può rappresentare un nuovo modello?
Il Texas certamente è un nuovo modello, che definirei quasi cinese: grande libertà d’impresa e ferreo controllo politico. Non è un caso che sia la nuova frontiera di Musk e di altri tecnocrati, che stanno spostando o hanno già spostato i loro quartieri generali nella zona occidentale dello stato, dai grandi server che Musk vuole costruire ad Abilene fino alle piattaforme di lancio per Space X che ha già costruito al confine col Messico.

 

La cultura molto conservatrice del Texas rurale permette ai repubblicani di restare saldamente al potere anche se le grandi città (Houston, Dallas, Austin, San Antonio) sono tutte democratiche. La combinazione di innovazione tecnologica e chiusura politica, oltre che culturale, ne fa il modello per tutto il sud, che altri stati come il Tennessee stanno cercando di imitare, anche offrendo alle tech companies incentivi maggiori di quelli del Texas, e in qualche caso riuscendo anche a portargliele via.

 

Com’è possibile che un innovatore seppur eclettico e contraddittorio come Musk si allei a Donald Trump?
Musk ha sostenuto i democratici fino al 2022, e con lui la maggioranza degli altri tecnocrati. Ora dicono che sono stati allontanati dai democratici per via della cultura woke che cominciava a imperare tra i loro quadri intermedi, i quali con le loro ossessioni moralistiche rallentavano la ricerca e minacciavano la crescita delle aziende. È diventato normale, per i grandi manager, riferirsi a questi quadri intermedi, usciti da poco dalle grandi università elitarie, come “marxisti”. Il che è ridicolo. In America non c’è un marxista a cercarlo con il lanternino. Il wokeism è politica dell’identità, dei diritti individuali e di razza. Non è la politica della lotta di classe, e senza lotta di classe non c’è marxismo. Ma i tecnocrati, che fuori dal loro ambito non sono più intelligenti degli altri comuni mortali, sono ossessionati da un marxismo di cui non hanno la minima idea, così come i genitori dei ragazzi delle scuole medie sono ossessionati dai transgender di cui non hanno la minima idea. Ma quello che unisce i tecnocrati è il loro successo. Stanno conquistando il mondo e non vogliono che nessuno li fermi, nessuna legge, nessun controllo e nessun sindacato. Musk si è staccato dai democratici quando durante il Covid il governatore della California ha imposto un lockdown, peraltro breve, sulle officine Tesla. Questo l’ha reso furibondo, come osa questo politicante fermare le mie fabbriche? E da lì è cominciato il suo avvicinamento a Trump e alla destra, che ora si concretizza nel chiaro scopo di diventare padrone del mondo, mentre Trump resterà “solo” il presidente degli Stati Uniti.

 

Siamo probabilmente alla vigilia di un grande cambiamento sociale dato dalle nuove tecnologie, al tempo stesso le democrazie mostrano come negli anni Venti del secolo scorso un affaticamento offrire risposte ai cittadini. La modernità e l’innovazione accompagnano dunque sempre la destra e gli estremismi al potere?
Il fascismo nacque anche dal futurismo, e il modernismo architettonico fu la sua cifra, finché la svolta imperiale del 1936 non mise da parte ogni velleità d’avanguardia. La democrazia è lenta e la tecnologia è veloce, futurista per definizione. I tecnocrati ormai dicono apertamente che democrazia e libertà d’impresa non sono compatibili. Il tecnofascimo ha i suoi teorici, e del resto è già stato tutto anticipato dalla fantascienza distopica. Uno degli argomenti più subdoli che i tecnocrati avanzano contro le regole democratiche, in particolare quelle dell’Unione Europea, è che ogni limitazione etica alla ricerca nel campo dell’Intelligenza Artificiale è un regalo alla Cina, che questi problemi non se li pone proprio. Il ragionamento ha una sua logica, però ricorda i tempi della proliferazione nucleare, quando non c’erano limiti al numero delle testate nucleari prodotte in America perché altrimenti si lasciava mano libera all’Unione Sovietica, e viceversa. Prima o poi, meglio prima che poi, sarà necessario un trattato di non proliferazione dell’Intelligenza Artificiale tra Stati Uniti e Cina, sempre che Elon Musk e Liang Wenfeng, il creatore di DeepSeek, riescano a mettersi d’accordo prima dei loro rispettivi governi.

 

Hollywood e più in generale la cultura americana hanno perso la forza innovativa di un tempo e la sua capacità d’impatto sulla società?
Ogni qualche dozzina di sequel e riciclaggi di supereroi riesce a venir fuori qualche film interessante, e lo stesso vale per le cinquecento o seicento serie televisive prodotte ogni anno. La macchina dell’immaginario è sempre attiva, e anche la letteratura americana, sebbene i grandi della generazione che sta per esaurirsi non siano ancora stati rimpiazzati adeguatamente, è tutt’altro che finita. Non fa bene a nessuno, però, che ogni nuovo talento sia presentato come un genio che deve vendere subito o mai più, ma non è solo l’America ad avere questo problema. Più che altro, la concorrenza alla cultura americana, sia popular che di alto profilo, viene dall’Asia. Il Giappone ha i manga, la Corea ha il cinema, la Cina ha un po’ di tutto e una letteratura sempre più internazionale. Hollywood ha avuto il suo periodo woke in cui ha prodotto film molto seri e deprimenti che due settimane dopo essere stati premiati nessuno aveva più voglia di vedere, il che vale anche per molti film europei più clamorosi che sostanziosi, ma prima di dare l’America per culturalmente spacciata voglio vedere come reagirà alla seconda presidenza di Trump.

 

Con Trump stiamo assistendo ad un accentramento dei poteri economico e politico in mano a poche persone, tutti uomini. È un dato reale e quindi preoccupante?
Non mi stupisce che siano tutti uomini. Per due volte gli Stati Uniti non sono riusciti a eleggere un presidente donna, e nonostante tutti i film di supereroi in cui ragazze appena un po’ muscolose sconfiggono eserciti di uomini come se niente fosse, l’uomo al comando è un archetipo al momento insuperabile. Una volta gli americani lo volevano sobrio e rispettabile. Adesso lo vogliono insensato, paranoico, sociopatico, cospirazionista, un caso clinico (non sto parlando solo di Trump; guardo ai ministri che ha scelto).

 

Come prevede infine il futuro degli Stati Uniti?
I grandi tecnocrati stanno avendo quello che volevano: una vera Rivoluzione Culturale americana, altro che quella woke. La loro versione del populismo maoista, “che cento fiori fioriscano”, consiste nel portare il Titanic dritto contro l’iceberg e osservare secondo quali linee di rottura si sfascerà. Dopo che la democrazia sarà affondata realizzeranno il loro Nuovo Ordine Mondiale, basato sulla battuta di un vecchio film di fantascienza, Freejack (Geoff Murphy, 1992), in cui i ricchi sono diventati immortali, ed è pronunciata niente meno che da Mick Jagger: «C’è gente in cima e gente sul fondo; e niente in mezzo» (There’s people at the top and people at the bottom; and nothing in between). Non dimentichiamo però che Trump ha vinto il voto popolare con una percentuale dell’1,5%, la più bassa dal 2000 in qua. Ha allargato la sua base, ma ha vinto anche perché molti elettori generici e non particolarmente informati sono rimasti confusi dal passaggio di consegne tra Biden e Harris e non sono andati a votare. Questo per dire che la storia non si ferma, né da una parte né dall’altra.