Nel periodo del Covid, diciamo pure estate 2020, lo smart working sembrava il deus ex machina che avrebbe rivoluzionato il mondo, e non soltanto quello del lavoro. Esclusi i lavoratori artigiani, gli operai e i dipendenti di fabbriche e in generale del settore primario, ogni impiegato, manager, architetto e giornalista sembrava aver trovato la soluzione a stressanti giornate in ufficio grazie alle comodità del lavoro agile – che poi era semplicemente lavoro da remoto o telelavoro – e quindi si stava molto più a casa, iperconnessi tra piattaforme di comunicazione di ogni tipo e software per la condivisione del lavoro. Poi, nel corso del 2022, è cambiata la concezione della pandemia e con essa anche la percezione del lavoro. In pochi mesi, in molti hanno accantonato il workholiday, il southworking e l’onnicomprensivo smart working per tornare nelle metropoli, su richiesta da parte dell’ufficio.
D’altronde il tasso dei contagi da coronavirus si era abbassato, i vaccinati sono cresciuti a dismisura e in generale la società ha smorzato il pressing su distanziamento e quarantene; il mondo del lavoro in sé ha spinto per un ritorno in massa (o almeno per una parte di essa) a tornare di nuovo nelle location adepte alla professione – le banche per i banker e gli impiegati, gli studi per gli architetti e le redazioni per i giornalisti. Per cui, tralasciando i collaboratori e i freelance che ancora più di prima si sentivano esclusi dall’ufficio, i lavoratori nel 2022 sono tornati sempre più dentro i luoghi di lavoro (di nuovo).
Ma nell’ultimo anno la musica era cambiata e ce ne siamo resi conto tutti. In Italia, secondo uno studio dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, nel 2022 ci sono stati 3,6 milioni di lavoratori da remoto, quasi 500 mila in meno rispetto al 2021, e gli studiosi hanno specificato come quest’anno ci sia stato: “un calo in particolare nella pubblica amministrazione e nelle PMI, mentre si rileva una leggera ma costante crescita nelle grandi imprese che, con 1,84 milioni di lavoratori, contano circa metà degli smart worker complessivi”. Di questa modalità di lavoro ne hanno usufruito il 91% delle grandi aziende italiane e per una media di quasi dieci giorni al mese, mentre nelle piccole e medie imprese il lavoro agile è passato dal 53% al 48% della sua applicazione e con una media di 4,5 giorni al mese. Mentre l’aspettativa per il 2023 è in controtendenza: gli smart worker attesi infatti sono in crescita, 3,63 milioni.
D’altronde è comprensibile: per un’azienda tenere i dipendenti a casa vuol dire anche risparmiare e non a caso, sempre secondo l’Osservatorio del Politecnico, una delle pecche per gli smart workers è stato proprio l’aumento dei costi delle bollette. Si spende meno per i pasti fuori casa, si spende meno per gli snack e le spesucce varie che comporta stare in ufficio, si spende meno per i mezzi o la benzina; ma quando stai a casa la luce e il riscaldamento li paghi tu. E infatti, guarda caso, grandi paladini dello smart working hanno iniziato a tornare in ufficio negli ultimi mesi, proprio quando i costi dell’energia sono schizzati e le bollette hanno iniziato a essere più ostiche del solito.
Peraltro, lo smart working è un’attività tutelata persino dalla legge con un decreto che risale al 2017 e che, fra il governo Conte e quello Draghi nel corso dell’ultimo biennio ha ricevuto notevoli incentivazioni. Tanto che dopo le norme dedicate ai dipendenti della PA, lo scorso 7 dicembre 2021 è stato firmato il protocollo nazionale dello Smart Working nel settore privato che prevede nuove tutele e accordi tra lavoratori e datori di lavoro. Mentre nel 2023 potranno lavorare da casa soltanto chi lo ha espressamente inserito nel contratto di lavoro.
Eppure con questa storia dei risparmi energetici legati ai dipendenti a casa potrebbe spingere molte aziende a confermare il lavoro da remoto nei contratti. Il mood poi dipenderà anche dai colossi dell’industria, italiana e non. Per quanto lo smart working sia infatti un’opzione importante per evitare spese energetiche, c’è comunque in ballo il fattore produttività, e secondo molti, il dipendente rende di più quando è in azienda. Sarà per questo, allora, che le big tech americane, in particolare Twitter e Google, hanno iniziato già dalla scorsa estate a richiamare i lavoratori. Alphabet, l’azienda che gestisce il motore di ricerca, durante l’estate ha fatto sapere ai propri dipendenti che il lavoro da remoto avrebbe comportato ai dipendenti uno stipendio inferiore, mentre Elon Musk aveva detto ai manager e agli impiegati di Tesla che anche loro, come gli operai che assemblano le vetture, sarebbero dovuti tornare in ufficio. Sempre Musk, ai suoi nuovi dipendenti, quelli di Twitter, circa un mese fa ha detto schiettamente: “Si torna in ufficio 40 ore alla settimana”.
Insomma, se gli americani hanno sempre lanciato mode e modelli da seguire, difficile pensare che le aziende europee non si adegueranno ai modelli che arrivano dall’altra parte dell’Oceano. Eppure in Italia le grandi aziende come Enel, Eni, Tim o le grandi banche come Intesa Sanpaolo e Unicredit stanno raccomandando fortemente lo smart working e inserendolo come punto contrattuale con i dipendenti. Secondo gli esperti, questo fattore potrebbe produrre, a cascata, effetti anche su altre aziende che seguirebbero la “via dei grandi”.
Se ci si lega alle statistiche dell’Osservatorio del Politecnico e si pensa alle strategie delle grandi aziende italiane, è probabile che anche nel 2023 dovremo presentarci a casa di amici che sono riusciti a preparare la cena perfetta perché erano “in smart”. Ma questo smart alla fine è solo una questione di selezione, il tuo capo non è il mio capo e se il mio è sicuro che dietro una scrivania in mezzo a 50 perso io possa rendere meglio, allora niente “smart”. Mentre a qualcun altro sarà capitato il sorrisone del capo friendly e Silicon Valley inspired per cui il lavoro da remoto è la norma. Non è una questione di bene o male, di essere retrogradi o meno o semplicemente di essere fortunati o non. E’ solo una questione di essere in tempo a casa per preparare la cena perfetta (e se viene male hai la giustificazione: “scusate, sono tornato tardi dall’ufficio”).