Da quando ho facoltà di ricordare, Vauro è sempre stato etichettato alla stregua di uno dei massimi esponenti di quel movimento di idee che giornalisti e osservatori hanno fatto rientrare nella lasca definizione di “Antiberlusconismo”.
Per chi – come chi scrive – è nato all’indomani di quel terremoto politico e giudiziario chiamato Tangentopoli, il vignettista pistoiese rappresenta una sorta di Agitprop di questo atteggiamento intellettuale nato come moto di reazione all’ascesa politica del patron di Fininvest, la matita armata a perenne disposizione delle esigenze editoriali dei nemici più radicali del Cavaliere, da Marco Travaglio al capocorrente Michele Santoro, che nel 2006 lo accolse tra le fila di Annozero.
E però, da un annetto a questa parte, qualcosa è cambiato: con l’inizio della guerra di invasione russa in ucraina, la timeline nostrana ha iniziato a impazzire e le linee di frattura che conoscevamo sono state rimescolate, gli antichi conflitti parzialmente ricomposti e i nemici giurati di antica data sono stati costretti a ricercare un canale di dialogo.
Con il passare dei mesi, quel pastone proteiforme (e spesso contraddittorio) chiamato “fronte pacifista” non ha soltanto inglobato buona parte dei protagonisti emersi dal brodo di coltura della stagione antiberlusconiana: ha dovuto fare di necessità virtù, smussare i propri confini e individuare un collante in quello spontaneismo indispensabile per poter anche soltanto coltivare la speranza di vedersi assicurato il giusto spazio nel discorso pubblico.
All’interno di questo minestrone post–ideologico hanno trovato collocazione le personalità più disparate, dal “quartetto del dubbio preventivo” (Agamben, Cacciari, Freccero e Mattei, ormai possiamo declamarli a memoria come la linea difensiva della Nazionale ai mondiali dell’82) alla professoressa di Filosofia Donatella Di Cesare, fino a Sabina Guzzanti, Claudio Messora di ByoBlu e, ovviamente, lo stesso Vauro.
L’altra esigenza cui questo schieramento pigliatutto ha dovuto ottemperare è stata la ricerca di voci autorevoli cui appigliarsi per dare sostanza alle proprie rivendicazioni.
All’inizio, questo bisogno è stato soddisfatto quasi interamente dalle ospitate televisive e dalla vis polemica di un celebre professore marchigiano che non vuole essere nominato su queste pagine, uno di quelli che alzano lo share delle trasmissioni e che infiammano i dibattiti sui social network ribadendo senza sosta la propria posizione intellettuale.
Appoggiarsi unicamente alla narrazione “io contro tutti” perpetuata dal docente non allineato di turno, però, non poteva essere sufficiente: occorreva coscrivere un altro illustre alleato, magari esterno a qualsiasi logica accademica.
Contro ogni previsione, questo alleato è stato individuato proprio in Silvio Berlusconi, l’imprenditore brianzolo capace di stringere una relazione di amicizia duratura con un ex agente del KKB nato a Leningrado e di custodirla gelosamente.
Proprio l’antico sodalizio con Putin ha consentito al patron di Forza Italia di porsi come un interlocutore più che credibile per compattare la coalizione schizofrenica dei “complessisti” della guerra in Ucraina, quelli che rivendicano di volere andare oltre la logica, reputata basilare e mendace, dell’aggressore e dell’aggredito – del resto, chi meglio del leader politico che ha ricevuto da Putin un lettone a baldacchino come regalo di compleanno potrebbe essere in grado di squarciare il velo di Maya e persuadere l’opinione pubblica del fatto che, ebbene sì, bisogna comprendere anche le ragioni del presidente russo?
Dopo le rinnovate – e tristi – esternazioni della scorsa settimana, Berlusconi ha aumentato ulteriormente il proprio ascendente sulla galassia “pacifista”. «A parlare con Zelensky non ci sarei mai andato», ha detto dopo aver votato alle regionali lombarde, criticando con queste parole la settimana di incontri europei di Giorgia Meloni, reduce dal Consiglio UE e dal bilaterale con il presidente ucraino in visita a Bruxelles. «Stiamo assistendo alla devastazione del suo Paese, alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili. Bastava che smettesse di attaccare le repubbliche del Donbass e questo non sarebbe accaduto», ha chiosato il leader di Forza Italia senza freni, tra i volti preoccupati del suo entourage.
Le sue parole hanno suggellato una volta per tutte quella improbabile corrispondenza d’amorosi sensi che ha finito per legare le due galassie (un tempo antitetiche) del berlusconismo e antiberlusconismo.
Il primo a derogare al proprio passato antiberlusconiano e barricadiero è stato proprio Vauro – o il doppelgänger che ne ha preso il posto approfittando di quel momento di ridefinizione delle intese dettato dalla guerra. Il vignettista ha svestito i panni del post–comunista per vestire temporaneamente quelli dell’oggettina, dicendosi pronto a “baciare in bocca” il Cavaliere.
A stretto giro è arrivata l’abiura di un altro storico avversatore del leader forzista, Piero Sansonetti, secondo cui Berlusconi avrebbe «ragione da vendere». Persino Alessandro Di Battista si è visto costretto ad allinearsi alle parole del Cavaliere, giungendo a sfruttarle come un’efficace arma retorica – «Se lo avessi detto io, Alessandro Sallusti mi avrebbe sparato», ha detto al direttore di Libero durante la scorsa puntata di Di Martedì.
Queste surreali attestazioni di stima delineano al meglio il nuovo archetipo che il Berlusconi 4.0 è chiamato a incarnare: quello dell’unico oppositore credibile, la scheggia impazzita che potrebbe sovvertire la narrazione dominante.
Con una Giorgia Meloni sempre più arroccata in posizioni atlantiste e un Partito Democratico costretto a inseguirla e supportarla, quella dell’ex presidente del Consiglio è rimasta l’unica voce fuori dal coro potenzialmente pericolosa, quella capace di aprire una linea di frattura su un caposaldo come l’adesione al Patto Atlantico – un tasto dolentissimo: parliamo della conditio sine qua non che ogni maggioranza è chiamata a soddisfare per poter anche soltanto immaginare di governare – e far saltare il banco.
In psicologia sociale è stato codificato il cosiddetto “effetto Benjamin Franklin”, risultato di un sistema cognitivo e comportamentale che permetterebbe di piacere a chi ci è ostile per qualche motivo. Consiste semplicemente nel domandare un favore a questa persona, dimostrando la propria parte più vulnerabile e umana, e riconoscendo che quella persona è in qualche modo superiore, perché ha qualcosa di cui si ha bisogno.
Ecco: Berlusconi deve aver cavalcato in maniera consapevole queste direttrici; in questo momento, il sottobosco anti–ucraino ha bisogno del suo sostegno, deve ricercare per forza di cose una sponda nel gigantismo di una figura così ingombrante – è del tutto normale: quando a perorare la tua causa non è il professore narcisista di turno, ma chi ha governato il Paese per vent’anni e in un clima di riconosciuta egemonia culturale, beh, il tuo dividendo di credibilità non può che aumentare.
L’urlo di Berlusconi terrorizza l’Occidente, e chi di dovere ha intenzione di sfruttarlo.