Si faceva chiamare Bonafede, come Alfonso, l’ex ministro della Giustizia. Non si sa se il riferimento fosse voluto o casuale, probabilmente non lo sapremo mai con certezza, ma se il caso non è mai fortuito è pure vero che la sorte è sempre dotata di un’ironia fuori dal comune. Matteo Messina Denaro, sessantuno anni da compiere ad aprile, è stato arrestato a Palermo, mentre era in fila per un tampone fuori da una clinica privata, in fila tra gli altri pazienti non l’aveva notato nessuno. La distanza dalla sede della Direzione Investigativa Antimafia è di appena 200 metri.
Il boss voleva sottoporsi a un ciclo di chemioterapia, a conferma delle tante tesi che vedevano il boss di Cosa Nostra già da tempo malato: si era parlato di un trapianto di rene avvenuto chissà dove all’estero, poi di un’operazione alla cornea fatta a Barcellona, la dialisi, i farmaci costosissimi che riusciva ad accaparrarsi in qualche modo. Messina Denaro, comunque, fiutata l’aria, ha provato a fuggire ed era riuscito anche a superare i cancelli della clinica, poi, nei pressi di un bar poco distante, i carabinieri del Ros lo hanno acciuffato. Nelle foto e nei filmati diffusi Matteo l’imprendibile, latitante da trent’anni, appare come un signore qualunque, piuttosto smagrito, con gli occhiali scuri rettangolari, un giaccone a ripararlo dal freddo, il berretto troppo grande calato in testa. Uguale all’identikit diffuso anni fa.
«Chi sei?», gli avrebbe chiesto il carabiniere che per primo è riuscito a mettergli le mani addosso.
Non ha mentito, il boss. «Sono Matteo Messina Denaro».
E poi via dentro un furgone nero, mentre intorno la gente per strada si scioglieva in un applauso e i carabinieri, molti dei quali col volto coperto da un passamontagna, si abbracciavano ed esultavano. Il contorno è fatto di pioggia, evento abbastanza insolito a Palermo.
Altra ironia della sorte, la grande fuga dell’uomo conosciuto anche con i soprannomi di “U Siccu”, “La Testa dell’Acqua” e “Diabolik” – ma lui i pizzini li firmava con il nome di Alessio – è finita il 16 gennaio del 2023 – un lunedì, anzi, il lunedì per definizione: il Blue Monday, il giorno più deprimente dell’anno secondo un qualche algoritmo, esattamente trent’anni e un giorno dopo l’arresto di Totò Riina: era il 15 gennaio del 1993, un venerdì.
Il curriculum criminale di Messina Denaro è sterminato: sette stragi e almeno una ventina di omicidi. Il suo nome è associato anche alla stagione delle stragi d’inizio anni ’90 e lui sarebbe anche uno degli organizzatori del sequestro dei Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino che collaborò con lo Stato facendo rivelazioni sulla strage di Capaci. Il ragazzino, dopo 779 giorni di sequestro, venne strangolato e poi sciolto nell’acido.
La grande fuga del boss era cominciata nel 1993, insieme a suo padre Francesco, che morì nel 1998 nel suo letto, da qualche parte in provincia di Trapani, e fu fatto ritrovare ben vestito e pronto per la sepoltura. L’ordine d’arresto per U Siccu è del 2 giugno 1993, prima di allora il boss non era mai transitato per le patrie galere, in un caso più unico che raro nella storia di Cosa Nostra. Altro caso speciale: Messina Denaro è stato il primo capo di Cosa Nostra di origine non palermitana, era infatti di Castelvetrano, comune di 30mila abitanti nel trapanese. Un uomo invisibile, al contrario dei suoi predecessori, «noti alle forze dell’ordine» già da prima di rendersi irreperibili.
«Non so se hai capito che nell’operazione di ieri da parte dei carabinieri c’è anche un mandato di cattura nei miei confronti», così, mentre entrava in latitanza, il boss scriveva alla sua fidanzata dell’epoca. «Qualunque cosa abbiano messo è soltanto una grande infamia, perché sono innocente. È iniziato il mio calvario, e a 31 anni, con la coscienza pulita, non è giusto né moralmente né umanamente. Spero tanto che Dio mi aiuti. Non voglio neanche pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò. Vuol dire che il nostro destino era questo. Spero tanto, veramente di cuore, che almeno tu nella vita possa avere fortuna. Non pensare più a me, non ne vale la pena. Con il cuore a pezzi. Un abbraccio, Matteo».
Dopo l’arresto di Bernardo Provenzano, nel 2006, Messina Denaro è diventato il ricercato numero uno d’Italia e tra i primi dieci d’Europa: lo Stato ha investito decine di milioni di euro per catturarlo e, a leggere i rapporti della Dda, a Palermo c’erano almeno duecento investigatori con l’esclusivo compito di lavorare su di lui per cercare di afferrarlo. L’anno scorso il Tg2 diffuse delle immagini del boss risalenti al 2009 e catturate da una telecamera di sorveglianza. Una delle poche tracce del fantasma, per il resto contornato da un alone di leggenda frutto delle parole di tanti pentiti: amante dell’alta moda, sempre circondato da belle ragazze, appassionato di macchine veloci e lussuose. Se ne sono dette tante su Messina Denaro, perché la mafia è come il vecchio west dell’Uomo che uccise Liberty Valance, dove «se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda». E invece La Testa dell’Acqua ha l’aspetto di un uomo come tanti, più malinconico di altri, per nulla affascinante, anzi per la verità abbastanza anonimo. Era solo scomparso da diecimila giorni.
Alla fine ci sono riusciti a prenderlo: qualcuno l’avrà tradito o, come si dice sempre in questi casi, forse Cosa Nostra l’ha scaricato. Troppo presto per tirare conclusioni, anche perché i dettagli dell’operazione non sono ancora stati svelati e, con ogni probabilità, ci vorranno anni per capire esattamente cosa sia accaduto e come. Del resto, la cattura di Riina è ancora oggi oggetto di dibattito (e pure di qualche inchiesta giudiziaria), quindi è sin troppo facile ipotizzare che si parlerà di misteri anche per quanto riguarda questo arresto.
E già, nell’eccitazione preoccupata del momento, ci si domanda chi sarà il prossimo.