Ci risiamo: il governo Meloni ha approvato l’ennesimo decreto-legge sull’onda emotiva di un caso di cronaca – questa volta, l’orribile stupro di gruppo commesso a Caivano da persone giovanissime.
Dopo la spettacolare (e inutile) retata di polizia tra i palazzi di Parco Verde – dove centinaia di poliziotti hanno sequestrato un po’ di contanti, appena 800 grammi di stupefacenti e alcuni scoiattoli di Prevost – l’esecutivo di destra ha deciso di affrontare la devianza giovanile nell’unico modo che conosce: mettendo tutti in galera e buttando via la chiave.
Tra le varie cose, il cosiddetto “decreto Caivano” rende più facile per i minori finire in carcere: abbassa infatti da 9 a 6 anni la pena massima richiesta per procedere con il fermo e la custodia cautelare.
Viene poi esteso ai minorenni tra i 12 e i 14 anni l’avviso orale del questore (una misura preventiva e discrezionale con cui si connota la pericolosità sociale dell’individuo) per i reati con una pena non inferiore a cinque anni. I genitori potranno essere multati fino a 1000 euro. E ancora: viene previsto l’arresto in flagranza per il minore responsabile di spaccio di lieve entità (le cui pene sono state alzate da un minimo di un anno a un massimo di cinque anni); il divieto di utilizzare il cellulare per i minori ritenuti “pericolosi”; e pene fino a due anni di carcere per i genitori che non riescono a mandare a scuola i figli.
Dal provvedimento finale sono rimaste fuori le ipotesi più controverse: l’abbassamento dell’età imputabile da 14 a 12 anni, chiesto a grande voce dalla Lega e da Matteo Salvini; e il blocco per i minori dei siti porno, che caldeggia la ministra per la famiglia Eugenia Roccella – evidentemente, era troppo anche per loro.
Ciò nonostante, il decreto licenziato dal consiglio dei ministri rimane un monumento al populismo penale.
Con quell’espressione, ha spiegato il politologo Manuel Anselmi (co-autore di un saggio sul tema), ci si riferisce a “forme di condizionamento sul sistema giustizia e sul dibattito sulla giustizia che hanno una finalità mediatica e di consensi, piuttosto che razionale ed oggettiva”.
In altre parole, il populismo penale cerca di soddisfare la “mentalità giustizialista” che chiede “soluzione breve a problemi complessi”. Ma trattandosi per l’appunto di problemi complessi, non possono essere risolti con soluzioni semplici; quelle, al massimo, producono leggi inutili e scritte male.
Nel caso di specie, come ha evidenziato l’Associazione Antigone (la più importante associazione italiana di tutela dei diritti delle persone detenute), “chiunque ha a che fare coi ragazzi sa che le responsabilità vanno estese agli adulti e alla società. Punire un ragazzo non è mai la risposta, specie a quell’età”.
Il “decreto Caivano” si muove esattamente nella direzione opposta; e va ad intervenire su un sistema, quello della giustizia minorile, in cui il carcere è sempre meno utilizzato.
Stando ai dati contenuti nel VI rapporto sulla giustizia minorile in Italia di Antigone, a gennaio del 2022 erano detenute 316 persone – il numero più basso dal 2007.
La giustizia minorile predilige infatti le misure alternative, tra cui le comunità residenziali e soprattutto la messa alla prova. Quest’ultima contempla la possibilità per l’imputato minorenne di ottenere la sospensione del processo al massimo per tre anni e l’inserimento in un percorso riabilitativo personalizzato, al termine del quale può esserci l’estinzione del reato.
Nel 2021 la messa alla prova è stata applicata in 4.634 casi; nel 1992, per fare un raffronto, in appena 788 casi. Che un sistema del genere funzioni lo conferma il tasso di recidiva: per i minori che hanno usufruito della messa alla prova è del 19 per cento; per quelli che sono stati in carcere è del 31 per cento.
Per un minore, come ha detto Michele Miravalle di Antigone in un’intervista a Linkiesta, il carcere “aggrava i percorsi di devianza e incattivisce i ragazzi”. A differenza di quello che ha sostenuto Matteo Salvini nei giorni scorsi, un 14enne che commette un reato non può essere uguale – e non lo sarà mai – a un 50enne. Se proprio bisognava mettere mano al sistema della giustizia minorile, ha precisato Antigone, si sarebbe dovuto modificare il sistema sanzionatorio “prevedendo pene diversificate per i minori”.
Ma non è questa la logica che ha mosso il governo; come al solito, è stata quella di placare in fretta e furia agli umori collettivi.
Se da un lato è vero che negli ultimi due anni si è registrato un aumento dei reati commessi dai minori – enfatizzati alla grande dal filone scandalistico delle “baby gang” – dall’altro i numeri in termini assoluti sono sostanzialmente stabili rispetto a un decennio fa.
E anche se ci fosse una reale emergenza, un decreto-legge estemporaneo non sarebbe comunque il modo di affrontarla. Non è con le manette che si risolvono i problemi sociali, né tanto meno si sconfigge la povertà o si combatte la dispersione scolastica.
Ma del resto, è da un anno che il governo Meloni infarcisce il codice penale di nuovi articoli e nuovi commi nella convinzione di sconfiggere il nemico di turno – i raver, gli scafisti, gli attivisti climatici, gli occupanti abusivi e chi più ne ha, ne metta.
Paradossalmente sta pure sconfessando il suo ministro della giustizia Carlo Nordio, che il giorno dell’insediamento spiegava che “[bisogna] eliminare questo pregiudizio che la sicurezza e la buona amministrazione siano tutelati dalle leggi penali: questo non è vero”. E invece lui stesso e i suoi colleghi stanno cercando di penalizzare l’esistente, in una vera e propria apoteosi del populismo penale.