Tra i prossimi pacchetti di riforme del governo potrebbero esserci anche misure di intervento sul reato di tortura, nel mirino delle destre fin dalla sua approvazione nel 2017 dopo un travagliato iter legislativo e numerosi richiami dell’Europa.
Il reato di tortura punisce chi, con violenze o minacce gravi, o agendo con crudeltà, causa acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, assistenza, controllo o cura, o anche chi si trovi in una situazione di minorata difesa se il fatto è commesso con più condotte o comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
Si tratta di un reato introdotto nel codice penale dopo quasi trent’anni di attesa dalla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Il testo licenziato dal Parlamento presenta rilevanti differenze rispetto all’iniziale proposta di legge, e non sono mancate le critiche da parte dello stesso Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa che ha lamentato una formulazione del reato di tortura divergente rispetto a quella contenuta nella Convenzione ONU.
Amnesty e Antigone ricordano invece che dalla sua approvazione questa legge ha portato a condanne e rinvii a giudizio, ma anche alla riqualificazione del reato laddove la tortura era stata inizialmente contestata, nonché ad assoluzioni e proscioglimenti, a dimostrazione che il testo ha avuto un’applicazione in linea con i requisiti della Convenzione.
Mentre il governo si appresta a smantellare il reato di tortura che punisce gli abusi commessi dai pubblici ufficiali è notizia sempre di questi giorni che la procura di Cuneo sta indagando su una serie di violenze avvenute tra il 2021 e il 2023 nel carcere di Cerialdo. 23 agenti di polizia penitenziaria sono accusati di tortura, lesioni e abuso di autorità ai danni di 7 detenuti.
Abbiamo sentito l’attivista e giurista Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.
Perché il governo ha intenzione di procedere alla modifica della legge contro la tortura?
A saperlo! Se lo sapessimo con una chiarezza dal punto di vista delle argomentazioni potremmo contro argomentare rispetto a quello che viene esplicitato. Non sappiamo il perché. Conosciamo già una proposta di legge pendente a firma di Fratelli d’Italia. Sappiamo che ogni tanto viene evocato questo provvedimento da parte del governo. È chiaro che non si può argomentare pubblicamente che la ragione è assicurare impunità a coloro che sono sotto procedimento per tortura, a coloro che sono stati già condannati per tortura o lasciare le mani libere per coloro che da oggi in poi vorranno e dovranno lavorare nei settori più delicati della vita pubblica: carceri, strade, questure e così via. Questo non si può dire apertamente e quindi aspettiamo le motivazioni formali. È chiaro che se le motivazioni fossero quelle non dette, sarebbe un vulnus alle regole fondative della democrazia moderna. E tra queste regole c’è l’habeas corpus, inteso come il diritto all’inviolabilità del proprio corpo, che risale al 1215, alla Magna Charta libertatum. E poi c’è una storia nella proibizione della tortura che ovviamente renderebbe il nostro Paese un unicum nelle relazioni internazionali. Qual è questo unicum? Il primo Paese democratico ad abolire o cambiare la legge sulla tortura in corsa a procedimenti pendenti. Non ci farebbe onore.
Quanto è stato difficile ottenere l’approvazione di una legge del genere in Italia?
Ha dell’incredibile, ma è stato complicatissimo. Siamo un Paese che ha vissuto le torture del fascismo e abbiamo dovuto aspettare fino al 2017. Era del 1988 la ratifica della Convenzione Onu contro la tortura che obbligava tutti gli Stati ad avere una legge e ricordo che iniziammo negli anni Novanta, insieme ad Amnesty International, a proporre, promuovere e spingere per avere una legge che, tra l’altro, ha al proprio interno un compromesso con le forze della destra che cercavano di anestetizzarne le potenzialità di impatto. È chiaro che poi le leggi vivono di vita propria, fortunatamente. Vivono nelle corti, vivono anche di quello che è il sapere giuridico diffuso, del diritto contemporaneo. E ovviamente noi dicevamo sin da allora che quella legge, come tante leggi, non è la legge perfetta. Ma è una legge che gli operatori del diritto stanno applicando. I giudici la stanno applicando, in alcuni casi con condanne, in alcuni casi rinviando a giudizio, in altri casi assolvendo, in altri casi ancora riqualificandola in corso d’opera. Si parte con tortura e si chiude con abuso d’autorità. Si tratta ad ogni modo di una legge che non ha alcun intento punitivo nei confronti dei pubblici ufficiali. Quello che si spera è che dentro le forze dell’ordine – dove sappiamo che la grandissima maggioranza degli operatori si muove nel solco della legalità – prevalgano i promotori di diritti e non i castigatori di diritti e corpi. Ci auguriamo che da lì dentro non si arrivi ad alimentare questa pressione per cambiare la legge, perché sarebbe un autogol. Verrebbe meno anche il rapporto fiduciario con la popolazione.
Le forze dell’ordine, dalle istituzioni alle organizzazioni sindacali, come hanno accolto questa legge?
Io distinguerei le istituzioni dalle organizzazioni sindacali e poi farei dei distinguo anche all’interno del mondo sindacale che è molto variegato. Per quanto riguarda le istituzioni all’indomani dell’approvazione ci sono state anche interviste pubbliche dell’allora capo della polizia che finalmente affermavano come fosse importante avere una legge in questo senso. Ricordo che avevamo subito condanne ignominiose della Corte europea dei diritti umani. Poi ci sono le organizzazioni sindacali e qua bisogna fare dei grossi distinguo. Alcune di esse hanno costruito intorno al contrasto alla legge la propria identità. Un’identità oppositiva rispetto a un mutamento culturale. E su questo hanno costruito rapporti privilegiati con alcune forze politiche. Rapporti che poi probabilmente sono alla base anche delle scelte successive di alcuni partiti.
Lei parla di mutamento culturale. Ritiene che ci sia un dibattito di questo tipo all’interno delle forze dell’ordine?
Secondo me sì. Alle nuove generazioni basterebbe un po’ di orientamento formativo per assorbire la profonda cultura della legalità, costituzionale e internazionale. E poi certo, c’è un residuo di vecchio. Ecco, la cosa veramente indisponente è che ci sia questa rappresentazione unitaria, dove anche i tanti che la pensano diversamente poi alla fine si accodano a quel residuo di vecchio. Questo non deve accadere. Perciò ci appelliamo anche alle forze dell’ordine e alle loro rappresentanze istituzionali perché arrivi da loro un’indicazione pubblica e politica: non mettiamo mano alla legge sulla tortura perché se lo facciamo degradiamo tutte le forze di polizia. Perché se lo facciamo sembra, pubblicamente, a livello interno e internazionale, che vogliamo impunità e mani libere. Ma con le mani libere rischiamo di diventare meno credibili quando vogliamo fare i castigatori all’estero dei diritti umani violati.