Uno potrebbe essere indotto a pensare che il superpotere di Novak Djokovic abbia a che fare con le sue doti sportive, con la sua (straordinaria) capacità di alterare con la forza del pensiero e della muscolatura cose di non poco conto, come i limiti motori imposti agli arti umani, le geometrie del campo da gioco e, più in generale, gli equilibri di uno sport che è impegnativo fisicamente quanto psicologicamente.
E invece no, la vera dote di questo tennista poliedrico è un’altra: la capacità innata di dire la cosa sbagliata nel momento sbagliato. Quando una personalità così ingombrante decide di pronunciarsi su argomenti politici, be’, i danni che può causare sono incommensurabili. Per un determinato sottobosco – quello più disinformato e malleabile come la creta – Nole ha ormai assunto una veste quasi messianica: questo schieramento composito lo considera una sorta di icona, l’agnello sacrificale che ha rigettato le proprie paure, il Davide che in uno slancio di idealismo ha scelto di combattere il Golia delle Big Pharma, ponendosi alla testa di una lotta che nessuno aveva avuto il coraggio di attestarsi. E, ahinoi, negli anni il caro Nole ha dimostrato di essere perfettamente a suo agio nel ruolo dell’opinion leader in grado di orientare le decisioni di decine di migliaia di persone sparse in giro per il mondo, a partire dal suo Paese d’origine, dove rappresenta qualcosa di più di una semplice icona sportiva. Non ha ha mai perso occasione per trasformarsi nel megafono delle battaglie in cui crede ciecamente, come ad esempio la causa No Vax (non ricordate? Beati voi).
C’è però una causa che per Djokovic occupa il primo posto, più delle battaglie contro i vaccini anti–Covid e delle sue bizzarre convinzioni sulla telecinesi: la grande nazione serba.
Sulle simpatie politiche un po’ destrorse del numero 3 della classifica ATP non dovrebbero esserci troppi dubbi, ma forse è il caso di rinfrescare la memoria: parliamo di un nazionalista di estrema destra, anche piuttosto radicale. Non potremmo definirlo diversamente, perché i precedenti in tal senso sono tanti e stratificati nel tempo: nel settembre dello scorso anno ha iniziato a circolare una foto che ha fatto molto discutere, in cui il tennista era seduto al tavolo di un ristorante in compagnia di Milan Jolovic – non uno qualsiasi, ma il comandante del gruppo paramilitare Lupi della Drina, alleato dell’esercito serbo in occasione del genocidio di Srebrenica del 1995. Per chi conosce almeno un minimo la vicenda politica di Djokovic, nulla di strano: nel 2008, quando il Kosovo dichiarò l’indipendenza dalla Serbia, il tennista si recò a Mitrovica per incontrare la popolazione serba locale ed esprimere il proprio supporto alla loro causa; ma, se è vero che due indizi non fanno prova, ecco il terzo: nel 2011 confermò al Der Spiegel di ritenere il Kosovo parte del territorio della Serbia.
Quella stessa Serbia governata dal 2014 dal Partito Progressista di Aleksandar Vučić – uno schieramento nazional-conservatore e populista – e in cui il tennista è diventato un’icona patriottica; uno tra i paesi con i tassi di vaccinazione più bassi d’Europa e in cui, forse non casualmente, la campagna ha faticato moltissimo a ingranare – del resto, quando il simbolo nazionale più prestigioso veicola un certo tipo di messaggio, finisci per crederci.
Lunedì, durante il Roland Garros, Nole ha pensato bene di rincarare la dose di nazionalismo: dopo aver vinto la sua prima partita del torneo, si è avvicinato a una telecamera e ha scritto sul vetro in serbo questa frase: «Il Kosovo è il cuore della Serbia. Fermate la violenza».
Data la situazione attuale in Kosovo e le tensioni dovute all’elezione di quattro sindaci di etnia albanese in località a maggioranza serba, anche in questo caso Djokovic ha dovuto dire la sua a ogni costo (e, ovviamente, di dirla nel peggior modo possibile). Da grandi poteri derivano grandi responsabilità, ma non per Nole: lui i suoi ha scelto di usarli soltanto per solleticare il suo ego e le proprie convinzioni distorte.