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In Spagna i giovani non vogliono dipendere dal cognome dei genitori

Yolanda Díaz, ministra del Lavoro spagnola, ha proposto di istituire per tutti i diciottenni «un’eredità universale»: un fondo 20 mila euro che dovrebbe permettere a tutti i ragazzi, a prescindere dalla propria condizione economica di partenza, di continuare a studiare, investire in formazione o mettere in piedi un’impresa

Foto di JAIME REINA / AFP via Getty

Yolanda Díaz, Ministra del Lavoro e vicepresidente di sinistra del governo spagnolo, ha proposto di istituire per tutti i diciottenni del Paese «un’eredità universale». Un fondo di circa 20mila euro, da elargire ai maggiorenni a piccole somme e fino al compimento dei ventitré anni. Il “tesoretto” dovrebbe permettere a tutti i ragazzi – indistintamente dalla propria condizione economica di partenza – di continuare a studiare, di investire in una formazione professionale specifica o di mettere in piedi un’impresa.

Si tratterebbe quindi di una misura, citando Díaz, per «lasciare che i giovani abbiano un futuro senza che ciò debba dipendere dai loro cognomi o dalla famiglia da cui provengono». Elementi che invece nell’adolescenza della ministra hanno avuto una certa rilevanza. Lei stessa ha raccontato che da giovane non ha potuto perseguire il sogno di diventare un’ispettrice del lavoro proprio per via delle difficoltà economiche in cui versavano i suoi genitori.

Che il reddito della famiglia abbia un impatto sul futuro dei figli lo dicono anche i dati. Quelli del Centro spagnolo per la politica economica hanno stabilito che la disponibilità economica dei genitori che abitano il Paese ha un impatto tale che chi nasce dal 10% più ricco della popolazione ha un’alta probabilità di avere da adulto un reddito medio annuo di quasi 30mila euro. Cifra che sale a quasi 40mila per i figli dell’1% più ricco. Al contrario, i bambini del 10% più povero avranno un guadagno medio annuo di circa 17mila euro: pochi di loro riusciranno a invertire la tendenza e cambiare lo stato delle cose.

Nonostante quello della lotta alla disuguaglianza sociale sia un principio evidentemente necessario, che ogni Stato dovrebbe essere in grado di poter perseguire, è pur vero che, arrivati ad un certo punto, criteri come fattibilità e concretezza interrompono l’idillio. Questi impongono di chiedersi, ad esempio, quanto sia economicamente sostenibile un’iniziativa del genere, e quanto possa durare nel tempo. Díaz avrebbe pensato anche a questo: dice che la sua ‘eredità’ costerebbe circa 10 miliardi di euro – visto che circa 500mila ragazzi diventano maggiorenni ogni anno: denaro che si otterrebbe tassando i super ricchi spagnoli – quelli che cioè guadagnano milioni di euro.

Se nella teoria tutto fila, lo scetticismo nella riuscita della pratica ha contagiato sia esponenti di destra che di sinistra. L’iniziativa è infatti stata criticata su più aspetti. Alcuni sostengono che non sia giusto ‘aiutare’ indistintamente chi può e non può pagarsi gli studi, e che invece la misura dovrebbe essere proporzionale al reddito. Critica che Díaz ha ‘sfruttato’ per ribadire quanto il successo di certe misure risieda proprio nella loro universalità – come nel caso dell’assistenza sanitaria pubblica. Inoltre, a suo dire, sarebbero molti di più i ragazzi in difficoltà di quelli che invece non avrebbero bisogno di sostegno economico.

Perplessa anche Nadia Calvino, Ministra dell’Economia, per cui «chi propone di concedere sussidi o contributi senza vincoli di reddito deve spiegare come verranno finanziati, soprattutto perché nei prossimi anni dovremo continuare con una politica fiscale responsabile», cioè con la cinghia tirata. Altri politici, meno categorici, hanno riconosciuto l’urgenza di rendere più democratica l’istruzione, suggerendo però di sostituire la misura avanzata dalla vicepresidente con alternative meno dispendiose – che prevedano ad esempio alloggi a prezzi calmierati per chi ne abbia bisogno.

Per l’opposizione invece, tra cui figura il Partito Popolare (PP) di centrodestra, quella “dell’eredità universale” è una proposta che andrebbe immediatamente cestinata, perché non rientrerebbe nelle priorità del Paese (che invece deve fare i conti con «una grossa fetta di popolazione a rischio esclusione sociale, il tasso di disoccupazione più alto in Europa e i lavoratori autonomi che faticano a restare a galla»).

Non sorprende a questo punto che da un sondaggio pubblicato lo scorso giugno (lo European Youth Study), condotto su 7mila persone tra i 16 e i 26 anni residenti in sette Paesi europei, è emerso che i ragazzi sono sempre più negativi sul proprio futuro. Il 52%, nello specifico, crede che la sua condizione di vita sarà peggiore di quella dei genitori, soprattutto perché il divario sociale, in termini di reddito, alloggio, patrimonio e opportunità di carriera, si sta decisamente allargando – la pensa così il 74%. L’atteggiamento pessimistico dei giovani è decisamente giustificato se si passano in rassegna alcuni dati. Prendiamo in considerazione i nostri, quelli italiani, partendo dai più recenti.

Il 7 luglio l’Istat ha pubblicato il suo rapporto annuale 2023, una specie di panoramica in cui, tra le altre cose, si analizza la condizione dei giovani nel Paese e quello che quest’ultimo fa e non fa per loro – cioè quanto spende. L’incipit del paragrafo è già di per sé una fotografia piuttosto nitida: «Negli ultimi decenni le dinamiche demografiche, il posticipo delle tappe del ciclo di vita, la diffusione della precarietà e frammentarietà dei percorsi lavorativi, i livelli ridotti di mobilità sociale, hanno contribuito a compromettere le possibilità di realizzazione delle opportunità di una larga parte di giovani e a scoraggiarne la partecipazione a vari livelli (politica, sociale, culturale) come dimostrano vari studi recenti».

Il testo poi prosegue così, arrivando al nocciolo della questione: “In Italia, i giovani che nel 2022 hanno mostrato un segnale di deprivazione in almeno uno dei cinque domini sono 4 milioni 870 mila (il 47,1% dei 18-34enni)”, con la classe di età dei 25-34enni risultata la più colpita.

Il concetto di deprivazione viene qui inteso come il mancato raggiungimento di una pluralità di fattori (individuali e di contesto) che agiscono nella determinazione del benessere, rappresentato attraverso cinque domini. Questi riguardano: istruzione e Lavoro, dove si valuta la partecipazione al mercato del lavoro e a percorsi educativi (il 20,3% dei giovani ha segnalato deprivazione in quest’ambito); la coesione sociale, dove si tiene conto della partecipazione sociale e politica e della fiducia nelle istituzioni (18,2%); salute, in cui si considerano la salute fisica e mentale e gli stili di vita (9,4%); il benessere soggettivo, nel quale si valutano diversi aspetti della soddisfazione personale (6,8); e infine il territorio, nel quale rientrano la soddisfazione per il contesto paesaggistico e ambientale in cui si vive e la difficoltà a raggiungere i servizi essenziali(14%).

Se si prosegue analizzando la spesa pubblica, le voci direttamente destinate ai giovani non raggiungono i livelli osservati negli altri paesi, sia in termini di PIL sia sul totale della spesa. I dati più aggiornati (del 2021) dicono che l’Italia ha speso in istruzione circa il 4,1% del proprio Prodotto interno lordo, sotto la media del 4,8% dei 27 Paesi UE. E che il denaro investito nella protezione sociale è in “netto sbilanciamento verso le funzioni rivolte a coprire i rischi delle generazioni adulte e anziane”. Tant’è che quasi la metà dell’intero ammontare di spesa (46,6%) è destinato a rispondere ai bisogni delle persone ‘over’, quasi un quinto (22,3%) per i rischi legati alle malattie e all’assistenza sanitaria e poco meno di un decimo per il rischio disoccupazione (9,1%). Mentre alle prestazioni sociali erogate alle famiglie e ai minori è riservato solo il 3,8%.

Con il risultato che, nel 2021, le persone con meno di 18 anni di età in condizioni di povertà assoluta – quelle cioè che non raggiungono la spesa minima mensile per beni e servizi considerati necessari per mantenere uno standard di vita accettabile – in Italia erano circa 1,4 milioni: il 14,2% del totale. Un dato quattro volte superiore a quello registrato nel 2008.

Una condizione di cui i giovani, come spiegato da Caritas, è piuttosto difficile liberarsi: la povertà ereditaria, che si trasmette “di padre in figlio” prevede che occorrano almeno cinque generazioni affinché una persona che nasce in una famiglia povera raggiunga un livello medio di reddito. Tempistiche che non si accorciano di certo se i governi non intervengono con azioni proiettate sul lungo termine.

Il punto da tenere a mente è però che non si tratta di una lotta tra giovani e meno giovani, ed è giusto che chi si affaccia al mondo del lavoro abbia gli stessi diritti di chi ne ha fatto parte per decine di anni. La realtà è che le ferite delle società europee sono talmente profonde che non è più sufficiente promuovere iniziative sporadiche o valutare tagli altrove – come sulle pensioni. Ci sono decine di altri fattori – tra cui il costo della vita e del lavoro – su cui è altrettanto urgente intervenire, e che di riflesso influiscono sulle condizioni di vita.

Valutare la fattibilità di una manovra come quella della Díaz, criticarla e calarla nel concreto del quotidiano, prima di approvarla, è democrazia – non è detto che sia la scelta migliore solo perché prevede un esborso monetario da parte dello Stato verso qualcuno.

Ma la ministra, perlomeno, si è accorta che i giovani esistono e che in questo momento storico hanno bisogno che le istituzioni siano dalla loro parte.

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