A maggio la legge 194 del 22 maggio 1978, la norma che permette di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza, compie 45 anni. Una legge importante e in un certo senso rivoluzionaria – è stata definita dal Guttmacher Institute americano una delle migliori al mondo – ma, di fatto, non del tutto applicabile: nel tempo, infatti, ha svelato molte zone grigie dove i movimenti antiscelta e le amministrazioni di destra hanno saputo infilarsi per rendere l’accesso all’aborto sempre più difficile, su tutti l’obiezione di coscienza. L’art. 9 della legge 194/1978 stabilisce infatti che il personale medico e sanitario non è tenuto a prendere parte alle procedure di interruzione volontaria di gravidanza qualora sia sollevata l’obiezione.
Nata come eccezione prevista per tutelare la coscienza individuale e, soprattutto, la libertà religiosa, l’obiezione di coscienza ha finito per divenire, nel corso degli anni, la regola: i medici sono obiettori fino a prova contraria. A confermarlo sono i dati emersi dall’indagine “Mai Dati” presentata alla Camera dei Deputati lo scorso anno, che hanno sottolineato come, in decine di strutture sanitarie gli obiettori raggiungono addirittura il 100% – in altre 130, il tasso oscilla tra l’80% e il 90%.
La comunità internazionale ha sottolineato in più di un’occasione le fragilità italiane in tema di diritto all’aborto. Ad esempio, nel 2016, il Consiglio d’Europa ha definito l’obiezione di coscienza come una violazione sia del diritto alla salute delle donne (tutelato dall’art. 32 della Costituzione) sia dei diritti dei lavoratori del personale sanitario italiano, privato della propria dignità.
Allo stesso modo, si è scagliato contro l’obiezione di coscienza l’Osservatorio internazionale Human Rights Watch, che ha dichiarato qualsiasi restrizione al diritto umano all’aborto, oltre a non portare alcuna diminuzione nel numero di aborti (incrementandone piuttosto la clandestinità), è contraria alla Dichiarazione universale sui diritti umani del 1948, ai Patti internazionali delle Nazioni Unite sui diritti civili, politici e sociali del 1966, alla Convenzione ONU contro la tortura e ai trattati internazionali a tutela dei diritti delle donne e dei bambini – tutti sottoscritti dal nostro paese.
Per tutti questi motivi, da anni si parla della possibilità di “superare” in senso progressista la legge 194, anche perché il messaggio che sembra trasmettere è quello secondo cui il ricorso all’aborto sia più una concessione che un reale diritto.
I radicali hanno depositato presso la Corte di Cassazione una proposta che punta a raggiungere questo risultato. Un progetto di legge che si apre con un articolo dedicato alla tutela e alla promozione dei diritti riproduttivi, sancendo che “lo Stato tutela la libertà riproduttiva e ne riconosce la centralità per la salute fisica, psichica e sociale della cittadinanza oltre che per il raggiungimento della piena autodeterminazione della persona gestante”.
La proposta dei radicali introdurrebbe delle novità fondamentali dal punto di vista pratico: ad esempio, l’aborto sarebbe consentito entro le 14 settimane e non più entro i 90 giorni, seguendo il limite stabilito in Francia, in Spagna e in Romania (mentre in Svezia e nei Paesi Bassi il limite è superiore). E poi lo sviluppo più significativo in assoluto: l’abolizione dell’obiezione di coscienza. Il testo prevede comunque una norma transitoria per chi è già medico: entro sessanta giorni dall’eventuale entrata in vigore della legge, i medici interessati hanno l’obbligo di confermare o meno l’obiezione – tuttavia, ai fini di garantire il servizio, il personale obiettore non deve superare il 50% in ogni struttura. Di conseguenza, non sarebbe più possibile l’esistenza di strutture obiettrici al 100%, che invece sono rese possibili dagli ampi spazi di interpretazioni concessi dalla legge 194, che non specifica in quali modi vada garantito il servizio di aborto.
Insieme alla cancellazione dell’obiezione, la norma eliminerebbe anche la cosiddetta “settimana di ripensamento”, obbligatoria prima dell’ottenimento del certificato per accedere all’interruzione di gravidanza.