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Le concessioni balneari in Italia: storia di un privilegio

Danno il diritto di sfruttare e gestire le spiagge, sono state assegnate in modo spesso opaco e non trasparente e sono state perpetuate per decenni, senza possibilità di rinnovo o di accesso a nuovi operatori

Le concessioni balneari sono da sempre l’elefante nella stanza per l’Italia, un paese fatto quasi interamente di coste in cui il turismo è una delle principali molle per l’economia nazionale. Il costante immobilismo dei governi sul tema (a prescindere dal loro colore) ha caratterizzato gli ultimi quindici anni del nostro Paese, con somma soddisfazione dei balneari.

La storia delle concessioni balneari in Italia è fatta di una serie di scontri tra Roma e Bruxelles, con l’Unione Europea che ha più volte richiamato i leader politici a riformare il meccanismo, assicurando più concorrenza e meno privilegi. Il casus belli è stato senz’altro la direttiva Bolkestein nel 2006, che avrebbe dovuto garantire un impatto significativo sulla gestione e l’assegnazione delle concessioni. La direttiva, adottata nel 2006, mirava a promuovere la liberalizzazione dei servizi nell’Unione Europea, eliminando le restrizioni alla concorrenza e facilitando la libera circolazione dei servizi tra gli Stati membri.

Tuttavia, l’attuazione della Bolkestein in Italia, soprattutto per quanto riguarda le concessioni balneari, ha incontrato diverse difficoltà. Il sistema italiano delle concessioni era caratterizzato da un alto grado di eterogeneità tra le regioni, con regole e pratiche di assegnazione spesso divergenti.

L’applicazione della direttiva ha sollevato interrogativi sulla necessità di armonizzare il sistema delle concessioni, per garantire la parità di accesso al mercato e di promuovere la concorrenza. La Bolkestein avrebbe dovuto rappresentare quindi un importante catalizzatore per le riforme nel settore, stimolando il dibattito e spingendo il paese verso la liberalizzazione e l’adeguamento alle norme europee. Una spinta che però non ha avuto molto seguito.

La Commissione Europea negli anni ha indagato parecchio sul nostro sistema balneare: queste concessioni, che danno il diritto di sfruttare e gestire le spiagge, erano state assegnate in modo spesso opaco e non trasparente, e venivano perpetuate per decenni, senza possibilità di rinnovo o di accesso a nuovi operatori.

Ostacoli amministrativi e politici hanno ritardato l’attuazione completa della liberalizzazione. Alcune regioni hanno incontrato difficoltà nell’adeguarsi alle nuove regole e alcune associazioni di operatori balneari hanno sollevato proteste in merito alla perdita dei diritti acquisiti. Molti hanno ipotizzato che la liberalizzazione potesse comportare la scomparsa di piccole imprese locali a vantaggio di grandi gruppi economici.

La richiesta dell’Unione Europea però è stata motivata dalla necessità di garantire la parità di accesso al mercato e promuovere la concorrenza nel settore. La mancata applicazione delle normative europee sulla concorrenza ha portato a una serie di privilegi per gli stabilimenti balneari esistenti, che hanno potuto mantenere le loro posizioni sulle spiagge per lungo tempo.

Questi privilegi includono il monopolio territoriale: i balneari che hanno ottenuto concessioni in passato hanno spesso goduto di un dominio incontrastato, escludendo la possibilità per i nuovi concorrenti di entrare nel mercato. Questo ha limitato la concorrenza e ha impedito l’accesso a operatori stranieri o a nuovi imprenditori locali. Oppure, la durata delle concessioni: in Italia erano spesso assegnate per lunghi periodi di tempo, a volte anche per decenni, senza possibilità di rinnovo o di accesso a nuovi operatori. Un elemento che ha garantito ai balneari esistenti un vantaggio competitivo e ha impedito il ricambio generazionale e l’ingresso di nuovi player nel settore.

Questi privilegi derivanti dalla mancata applicazione delle normative europee hanno creato un ambiente poco favorevole all’innovazione, alla concorrenza e alla qualità dei servizi offerti sulle spiagge italiane. La richiesta europea di liberalizzare mira a migliorare l’offerta turistica e garantire una distribuzione più equa delle opportunità nel settore.

Ora, il governo sta provando di gestire la situazione senza scontentare nessuno. A quanto pare sta cercando modi per evitare di colpire gli attuali proprietari di stabilimenti balneari che hanno beneficiato di proroghe automatiche delle concessioni per molti anni. In particolare, Palazzo Chigi sta cercando di interpretare la direttiva in modo da sostenere che le risorse naturali, come le spiagge, non siano considerate “scarse” in Italia, e quindi non si applichi l’obbligo di indire gare pubbliche per le concessioni balneari.

Un aspetto chiave della strategia del governo è la creazione di una nuova mappatura delle spiagge italiane, finalizzata a dimostrare che solo in alcune aree esiste una reale carenza di spiagge libere, e solo in queste zone sarebbe necessario avviare gare pubbliche per le concessioni. Tuttavia, questa interpretazione solleva dubbi e sembra essere uno strumento per perseguire gli interessi degli attuali proprietari, considerando che l’Unione Europea ha già riconosciuto la scarsità delle spiagge italiane.

La proposta di mappatura comune per comune potrebbe incontrare delle difficoltà, poiché ogni regione ha attualmente adottato una diversa percentuale di spiagge da mantenere libere. Il governo vorrebbe imporre una percentuale uniforme su tutto il territorio nazionale al fine di ridurre il numero di concessioni soggette a gara. Questo approccio comporta il rischio che un numero eccessivo di spiagge venga occupato dagli stabilimenti balneari, con potenziali conseguenze negative per l’ambiente.

Al momento, permane l’incertezza su quale delle decisioni prevarrà. Il governo prevede di presentare la nuova mappatura agli organismi competenti dell’Unione Europea entro la fine dell’estate: ulteriori sviluppi sono dietro l’angolo e questa saga sembra davvero infinita.

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