Quella che i giornali s’affrettano a definire «la nuova stagione delle lotte universitarie», con qualche paragone a pezzi da novanta tipo il Sessantotto, o almeno le proteste contro la riforma Gelmini, è in realtà ancora un fuoco piccolo. Ma che c’è, e ha la stessa natura. E proprio per questo, oltre che per la delicatezza degli argomenti che tira in ballo, fa rumore. In sintesi: due giorni fa l’Università di Torino con una decisione del suo Senato accademico – che come gli altri in Italia nel prendere le sue scelte è autonomo anche dal Ministero dell’Istruzione – ha rifiutato di accedere a un bando di ricerca che avrebbe previsto una cooperazione in progetti industriali e tecnologici tra i nostri ricercatori e quelli di Israele. Il motivo: «Il protrarsi della situazione di guerra a Gaza», e una lettera con 1700 firmatari tra studenti e professori che chiedevano un passo indietro. Apriti cielo.
Ovviamente non sono serviti a niente i tentativi del rettore, Stefano Geuna, di sviare le polemiche, tra un «non volevamo far arrabbiare nessuno» (be’) e la precisazione – vera, perlomeno per ora – che «non si tratta di un boicottaggio: gli accordi in essere sono ancora validi. È un caso specifico». Meloni, tra i tanti, ha parlato di un «preoccupante clima di antisemitismo nel Paese», nel resto della destra le accuse sono più pesanti e lo stesso Conte, che pure con il Movimento 5 Stelle sta all’opposizione, ha biasimato la scelta paragonandola a ciò che successe con la Russia due anni fa, quando ha attaccato l’Ucraina. Non fosse che lì si erano visto boicottaggi veri e propri, con corsi su grandi autori russi sospesi senza motivo, come se in qualche modo la cultura storica del loro Paese fosse responsabile delle strategie di oggi di Putin. Qui è diverso. E tra scontri e manifestazioni varie, è facile che questa sorta di onda possa arrivare in altri atenei, in particolare a Bologna. Anche se per ora è ferma a Torino.
Certo, neanche tutti i professori, lì, sono d’accordo, e anche tra chi nella politica e non solo ha contestato questa decisione ci sono opinioni più moderate – una delle più gettonate è quella per cui «la diplomazia della ricerca» sia un’arma di pace, e quindi sia meglio lasciare aperte le porte che chiuderle. Ci sta, il caso è spinoso e le accuse d’antisemitismo – vero o presunto – sono in agguato. È difficile dire chi abbia ragione e chi abbia torto: bisogna valutare i casi, può benissimo essere che i singoli ricercatori coinvolti non siano d’accordo con le politiche d’Israele così come è normale che un ateneo possa far valere la sensibilità dei suoi iscritti in un particolare momento storico. Allo stesso modo, il fatto che «la politica debba restare fuori dalle università», come ripetono molti, sa delle levate di scudi contro le prese di posizioni di Amadeus a Sanremo: non è che un’università non debba prendere decisioni politiche, ma che non lo debba fare in relazione a chi è in parlamento. Insomma, la caccia alle streghe e la messa al bando di testi e autori ebrei è un conto, le singole decisioni un altro.
A spaventare la politica nell’insieme – in modo da costringere anche il PD a posizioni ambigue – non è solo la difficoltà a mettere in discussione Israele, comunque sempre più difficile, ma la natura di queste contestazioni. Nel caso della Russia, certi boicottaggi erano oggettivamente esagerati e comunque figli di una linea del governo, calati dall’alto: per chi voleva distanziarsene, era facile attaccarli. Stavolta invece tutto nasce da quella che La Stampa definisce «una saldatura» tra il mondo degli accademici – quelli con la toga, i professori «baroni» pieni di privilegi e con grandi stipendi, gli intoccabili che chiunque ha frequentato un’università in Italia conosce – e i movimenti degli studenti antagonisti, che non fanno compromessi, da anni sono per la Palestina in tutto e per tutto e sono, a loro volte, un’altra specialità tipica dell’università. A Torino in particolare sono parecchio attivi in questo periodo, perché è scoppiato una sorta di MeToo interno all’ateneo su casi di molestie, e queste manifestazioni si sono intrecciate con quelle a favore di Gaza. La lotta al patriarcato, dicono in sintesi, è la lotta contro tutte le guerre, compresa questa.
Viene da sé, appunto, che siano temi abbastanza comuni se si tratta di un certo tipo di studenti, ma che vengono dal basso, dai centri sociali, dai cortei: da un mondo che la politica in Parlamento da anni fatica a comprendere, di cui non capisce la lingua, sinistra compresa. Spesso non li si prende neanche sul serio, ma esistono. Da sempre gli studenti si esprimono con modi e posizioni nette e radicali, e non serve neanche tornare indietro nel tempo: le lotte per l’ambiente di Ultima Generazione, che in larga parte coinvolgono giovani e giovanissimi, stanno qui a dimostrarlo. È probabile che qualcuno, al governo, vedendo ciò che è successo a Torino si sia sentito “tradito”. Nessuno, nel dubbio, si è sforzato di capire come si è arrivati a una decisione del genere, ma si è lanciato subito l’allarme. E così hanno perso un’altra occasione almeno per ascoltarli, i giovani.