L’attrice Isabella Ragonese, che ne ha vestito i panni nella miniserie Solo per passione di Roberto Andò, descrive Letizia Battaglia come un vento; un vento la cui presenza riusciva a spostare l’aria. Ed è un fresco ponentino quello che soffia sulla capitale come un buon presagio mentre il suo nome riecheggia nel Teatro del Portico, spazio off dell’immenso complesso archeologico di Caracalla.
Qui, ricordando la notte insonne delle bombe esplose davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano e alla Chiesa di San Giovanni al Velabro a Roma e a Milano, in Via Palestro, dove persero la vita cinque persone, si scava come archeologi con sguardo volto al futuro tra parole, ricordi e letture, per omaggiare a più riprese colei che la mafia l’ha guardata in faccia “letteralmente calpestando il sangue dei morti”. La macchina fotografica è stato per Letizia Battaglia uno strumento di denuncia sociale, resistenza civile ed emancipazione: prima donna fotografa in Italia ad essere assunta da un quotidiano, L’Ora di Palermo, e “Unica donna nelle città dei morti, degli uomini: giornalisti, giudici, poliziotti, carabinieri, mafiosi, medici legali”.
Nel frattempo, sull’ altro versante di questa gigantesca Villa del Popolo, è in corso la mostra Letizia Battaglia. Senza fine, in loco fino al 5 novembre, promossa dalla Sovrintendenza Speciale di Roma, curata da Paolo Falcone e organizzata da Electa in collaborazione con l’Archivio Fotografico Letizia Battaglia e la Fondazione Falcone per le arti: i corpi crivellati, lo sfarzo delle feste nelle ville borghesi, le persone degenti nella Real Casa dei Matti di Palermo, i processi, il corpo nudo e politico delle donne e poi i viaggi in Groenlandia, in Russia, in Turchia, gli arresti e quelle bambine, private di sogni, cui Letizia fa alzare la testa.
Un caleidoscopio di fotografie in grande formato dimora sospeso su “cavaletes” di cristallo, tra la Natatio, piscina olimpionica ante litteram, e due nuovi spazi restaurati e restituiti al pubblico per un percorso espositivo libero da binari tematici o cronologici: “Una polifonia visiva che apre il dibattito, mantiene la memoria, crea ponti”, racconta il curatore, lasciando riemergere da queste solenni rovine le antiche funzioni di convergenza socio-politica e di scambio intellettuale. “Non si tratta solo di mostrare foto ma di sostenere e portare avanti gli ideali di Letizia”.
E in questa direzione muove, al Teatro del Portico, la costellazione di testimonianze che trova nella dignità l’elemento comune a ogni attività della fotoreporter siciliana: “Non ho mai visto una sua foto disgraziata, priva di umana pietà o di relazione con i soggetti delle sue fotografie, fosse anche di dissenso”, spiega Paolo Falcone. Emblematica in tal senso lo scatto dell’arresto al feroce boss mafioso Leoluca Bagarella, che le sferra un calcio mentre lei s’avvicina per immortalarlo facendola finire in terra.
“In Letizia non c’è solo la volontà di documentare: lei si sente parte di quella storia, di quella società civile che è complice di quella ferocia se resta in silenzio. La sua è una fotografia militante, d’ impegno politico, che lei apprende a Milano dove arriva nel 1971″, ci spiega Sabrina Pisu, giornalista e co-autrice della biografia di Letizia Battaglia Mi prendo il mondo ovunque sia, edita da Einaudi. “Siamo a due anni dalla strage in Piazza Fontana, in una stagione socioculturale caldissima: è la Milano di Dario Fò e Franca Rame, quella del Circolo Turati e Pasolini, ci sono le proteste studentesche e i giornalisti scattano con una 28 mm; ciò vuol dire che loro sono dentro la mobilitazione, non si limitano a raccontarla. Letizia si forma così da autodidatta e una volta tornata a Palermo con un nuovo incarico come Direttrice della fotografia per L’Ora, porta questo atteggiamento nella sua terra, raccontando per ben 19 anni una cronaca di morti ammazzati di mafia, la carneficina che ha travolto gli onesti, isolati ed esposti alla vendetta mafiosa come Falcone e Borsellino”.
E così passiamo alla memoria ancora recente, potremmo dire a colori, quella degli attentati di Cosa Nostra al patrimonio artistico, una vendetta contro lo Stato per il 41 bis, figlia di una strategia eversiva che chiamava in causa un’intelligenza politica dietro le quinte, alla memoria in bianco e nero negli scatti di Letizia Battaglia, quella della “seconda guerra di mafia” scatenata dai Corleonesi a Palermo per il dominio sul traffico di stupefacenti.
“Letizia Battaglia è stata una donna rinata molte volte” racconta il giornalista Vincenzo Vasile, ex collega del quotidiano L’Ora, di cui è stato anche direttore. Moglie e madre giovanissima di tre figlie, si sposa sedicenne con una fuitina, nell’illusione di liberarsi dall’educazione opprimente di un padre autoritario, passando in realtà in una gabbia più grande, per giunta dorata: “A liberarla sarà in un primo momento la psicoanalisi – continua Vasile – un fatto per niente scontato considerando i tempi. Il suo psicanalista e psichiatra, Francesco Corrao, che lei considera un secondo padre, la incita a esprimersi, a inventarsi un lavoro, a leggere poesie, a scrivere”. E così dopo tre anni di terapia Letizia trova il coraggio di divorziare, poi arriverà la fotografia intorno ai quarant’anni a sprigionare la sua identità vulcanica. “Nello sguardo di Letizia c’era qualcosa di più – prosegue Vasile – dato da due fattori, in parte dallo stupore, perché mentre imparava a fare quel mestiere difficile scopriva una realtà che non conosceva. Lei viene dalla borghesia palermitana, i Battaglia avevano due boutique in centro e i tuguri, i vicoli miserabili, la puzza di fame che vediamo in molte delle sue foto, credo che lei li incontrasse per la prima volta mentre li immortalava. L’altra scoperta le provocherà indignazione perché sarà quella nei confronti della sua classe sociale di appartenenza in cui Letizia, nella migliore delle ipotesi riscontra un clima di indifferenza, se non di vera e propria connivenza, la solidarietà organica della mafia con la borghesia palermitana. Noi dobbiamo pensare che si trattava dei vicini di casa”.
E mentre si parla di lei nel corso delle serate, dal palco centrale del palco a ridosso delle terme arriva musica sinfonica: sono le prove generali per il Caracalla Festival, la stagione estiva del Teatro dell’Opera di Roma, in perfetto stile Letizia Battaglia, la cui identità è impossibile contenere nella definizione a senso unico di “Fotografa contro la mafia”, soggetto che abbandonerà dopo la Strage di Capaci, sovrapponendo in seguito a tutta quella morte la fiamma ardente della vita: ed ecco apparire le sue donne nude “per esigere di esserci e mostrarsi per quello che sono e vogliono”, e di nuovo le bambine, giovani sottratte all’infanzia, private del futuro in cui Letizia cerca e trova sempre un po’ di sé, restituendo loro dignità e il sogno.
Letizia Battaglia persegue i diritti civili in molti modi: rivestendo cariche pubbliche in politica, attraverso l’editoria, come gallerista, tramite il volontariato presso l’ex ospedale psichiatrico di Palermo o per il carcere, come consulente esterna: “Ai detenuti del Carcere Minorile Malaspina di Palermo è dedicato l’ ultimo progetto che avremmo dovuto realizzare insieme”, racconta Sabrina Pisu. “Letizia sentiva già di amare questi ragazzi ancor prima di conoscerli perché figli di uno stato assente, allevati nel crimine senza nessuna educazione al discernimento tra bene e male, ragazzini che in carcere per la prima volta sono andati a scuola all’età di 14 anni o dal dentista a 17 anni. Ricordo che lei si chiedeva come avrebbe potuto restituirne l’anima senza poter fotografare i loro occhi. Quelle foto alla fine le scatterà sua figlia Shobha, fotografa anche lei, perché Letizia è venuta a mancare due giorni prima di iniziare”. Il reportage, realizzato per L’Espresso, oggi è tra i finalisti al premio Lucchetta per i diritti negati.
Ai giovani Letizia si racconta senza riserve, li incoraggia, li sprona, li ispira con la propria esperienza, raccontando loro di come la macchina fotografica l’abbia salvata dalla solitudine, del sacrificio e dello studio dietro il suo lavoro; così fa con gli studenti di ogni dove che incontra al Centro Internazionale di Fotografia di Palermo che dirige al Padiglione 18 dei cantieri culturali della Zisa, il suo sogno civile divenuto realtà, ma ci sono altri sogni in cantiere per questo spirito dalle declinazioni infinite, altre sfide, colte e proiettate in avanti dall’omonimo libro-catalogo della mostra Letizia Battaglia. Senza Fine che, edito da Electa e curato da Paolo Falcone e Sabrina Pisu, ne estende i percorsi con ulteriori foto e attraverso itinerari inattesi fatti di storie e parole a partire dall’acrostico S.E.N.Z.A F.I.N.E.
Dalla S di sogno alla E di emancipazione, ad ogni sillaba corrisponde un percorso senza confini letterari per restituirci un tratto di Letizia, sette autrici per due generazioni: Viola Ardone, Isabella Aragonese, Giovanna Calvenzi, Chiara Barzini, Dacia Maraini, Marta Sollima, Anastassija Sofia Tortorici, Paolo Falcone e Sabrina Pisu. Un approccio corale che esalta e ci restituisce il suo sguardo femminile sul mondo: “Senza indulgere ad un certo manierismo sul femminile, Letizia Battaglia riesce ad essere una grandissima femminista perché racconta le donne in una dimensione vera, nella sensualità, nel disagio, nel bisogno”, afferma la scrittrice Viola Ardone che, su una delle sue bambinette siciliane, ha modellato la protagonista di un suo romanzo. “Molte delle donne che lei fotografò nel manicomio di Palermo erano finite lì semplicemente perché desideranti, perché creavano scompiglio, Letizia sa che avrebbe potuto essere una di loro”.
Oggi l’eredità fotografica che l’artista ha lasciato al mondo è tutelata e valorizzata dall’Archivio Letizia Battaglia, gestito dai nipoti Matteo e Marta Sollima, che del lavoro della nonna coltivano il futuro, il vero tempo di Letizia: “Io credo che lei si fosse proprio emancipata dal condizionamento del tempo, inteso come tempo che passa e limita il nostro”, spiega Pisu. “Proprio in virtù delle sue continue rinascite, per lei ogni istante è una continua opportunità di scoperta: durante il Covid mi diceva al telefono: ‘Adesso devo capire cosa devo fare di nuovo e come fare diversamente quanto già fatto’. Quindi ha ridipinto tutta la sua casa, la stanza da letto turchese, ha cambiato le tende. Lei questa prospettiva della vita che si accorciava non l’ha mai considerata perché nel suo nucleo più profondo è rimasta una bambina pronta ad apprendere e senza mai pensare che un coetaneo potesse insegnarle di più di un ragazzo di 20 anni e ciò rende l’idea di quanto lei si smarcasse da ogni tipo di definizione e condizionamento anagrafico, sociale, e credo che questa fosse la vera libertà di Letizia Battaglia, la sua forza e la molla che le ha permesso di saltare sulla sua malattia, attingendo alla potenza che non era più il suo corpo fisico ma la sua mente che desiderava”.