Aragorn e Almirante. Il Fosso di Helm e il ridotto della Valtellina. Parallelismi astrusi che riassumono il pantheon della destra italiana e la sua ossessione per Il Signore degli Anelli.
La fascinazione dei camerati per l’opera epica di J.R.R. Tolkien è risaputa e viene da lontano, precisamente dal 1970 quando la trilogia viene pubblicata integralmente, per la prima volta in Italia, dalla casa editrice di destra Rusconi (l’introduzione è affidata all’autore tradizionalista Elémire Zolla). Nasce così un innamoramento che dura da cinquant’anni, anche se il termine migliore è fissazione: il medieval-fantasy di Tolkien apre la strada a una retorica che in poco tempo conquista l’immaginario dei giovani neofascisti del Movimento sociale italiano, fatto di radici celtiche, identificazione dell’Europa con la Terra di mezzo e il mito del cavaliere sangue e suolo.
Sul finire degli anni Settanta, lo zoccolo duro della giovanile missina organizza i “Campi Hobbit” – con la svolta di Fiuggi la kermesse verrà rinominata “Atreju”, evidentemente La Storia infinita è più moderata – e gli inni del ventennio vengono sostituiti dai pezzi dei gruppi d’area, produzioni amatoriali firmate da complessi che non tentano nemmeno di nascondere l’appropriazione culturale della saga come la Compagnia dell’Anello e gli Hobbit.
Un accostamento così nonsense che fa quasi sorridere. Sta di fatto che, suo malgrado, Il Signore degli Anelli è il collante più forte della destra neo-post-para-fascista, capace di accomunare il militante naziskin al deputato ex PdL. “Le radici profonde non gelano” e proprio per questo la destra di governo non poteva esimersi da questa pratica.
Carmelo Caruso sul Foglio riporta come Giorgia Meloni abbia “chiesto espressamente” di dedicare a Tolkien la grande mostra italiana della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, un’imposizione esplicita della presidenza del consiglio e del ministero di Gennaro Sangiuliano.
Date le premesse, il fatto si commenta da sé e Fratelli d’Italia, bisognosa di mantenere i legami con la sua comunità di duri e puri, sceglie la via più stereotipata e grottesca per ricordarci le sue origini. Questa storia arci-italiana fatta di croci celtiche e hobbit spiega in maniera eloquente il problema che accompagna la destra nostrana dall’inizio della sua storia politica: l’assenza di un serio passaggio culturale dal neofascismo al conservatorismo moderno.
È questo il più grande tabù dei patrioti italici, incapaci di affrontare l’argomento in maniera diretta e senza giri di parole, schiavi di un feticismo del passato che, nonostante il sempiterno vittimismo sull’egemonia culturale della sinistra, sono i primi a portare avanti da decenni. Nonostante le tesi di Fiuggi sul riconoscimento del valore dell’antifascismo, le dichiarazioni finiane del 2003 (“fascismo male assoluto”) e i timidi comunicati in occasione del primo 25 aprile della destra di maggioranza – la premier ha dovuto compiere uno sforzo disumano per pronunciare la famigerata F-Word – basta fare un giro nelle sezioni di FdI per capire quali sono i riferimenti ideali di un grande strato del partito, dalla base a elementi della classe dirigente.
Il fratello d’Italia idealtipico continua a preferire l’SS belga Léon Degrelle a Giuseppe Prezzolini, i libri di Franco Freda a quelli di Leo Longanesi, e di fronte a un brodo culturale del genere, improponibile e nostalgico, a Giorgia Meloni non resta che Tolkien per far digerire ai suoi fan le varie giravolte governiste dell’ultimo anno.
È questa una delle chiavi di lettura più interessanti per comprendere le ragioni dietro l’ordine di intitolare la mostra all’autore britannico: da mesi, Meloni lavora a un accordo europeo con i popolari e tra i compromessi necessari per la riuscita dell’operazione c’è la questione del simbolo, la fiamma missina, che i potenziali alleati vorrebbero vedere sparire dal logo del partito. Un cambiamento costantemente rimandato, ma che oggi non è più impronunciabile, tanto che gli stessi dirigenti di FdI ne discutono apertamente sui giornali (stando alle più recenti indiscrezioni, il passaggio dovrebbe avvenire dopo le elezioni europee del 2024).
Per un’area ossessionata dall’identitarismo che da settant’anni sguazza nella retorica del tradimento, troncare il legame simbolico con il Movimento sociale italiano significherebbe compiere lo strappo definitivo e Fratelli d’Italia, nonostante l’immagine ostentata di partito monolitico, si ritroverebbe ad affrontare i malumori interni dei nostalgici.
È meglio ripiegare su Il Signore degli Anelli, dunque. Di fronte a questo quadro, la domanda sorge spontanea: togliere la fiamma tricolore serve veramente a qualcosa? Uno schieramento che non ha mai voluto affrontare seriamente il suo passato, un partito che per ogni dichiarazione antifascista ne rilascia dieci critiche sulla Resistenza e revisioniste sulla Repubblica di Salò, è in grado di svolgere una seria riforma ed elaborazione intellettuale che accompagni le svolte propagandistiche (fiamma sì, fiamma no)? Meglio chiudersi nella Terra di Mezzo e combattere Sauron piuttosto che fare i conti con i problemi reali. La destra deve preoccuparsi di sé stessa, non degli Uruk-hai.