Non è un segreto per nessuno: per rimanere fedele a sé stessa, la festa della Liberazione deve essere in grado di sopportare le contestazioni.
Storicamente ce ne sono sempre state, a Milano e nelle altre piazze del 25 aprile; eppure, se possibile, quest’anno l’asticella dell’ambiguità è stata innalzata oltre ogni limite precedentemente conosciuto. La fine dell’occupazione nazista e del regime fascista rappresentano uno spartiacque per la storia della democrazia del nostro Paese e, almeno in una linea puramente teorica, non potremmo (anzi: non dovremmo) concedere spazi di discussione pubblica ai tentativi revisionisti che hanno catalizzato l’attenzione mediatica nelle ultime settimane, da Meloni che fa volutamente confusione tra “italiani” e “antifascisti” ai colpi di testa di La Russa su Via Rasella (mi riferisco alla sua assurda affermazione secondo cui «I partigiani uccisero una banda di semi-pensionati, non di nazisti delle SS»: un falso documentale da Minculpop) e addirittura sulle radici della Costituzione italiana che, a detta della seconda carica dello Stato, non conterrebbe alcun riferimento all’antifascismo.
È triste doverlo constatare, ma stiamo vivendo una situazione di caos tutto sommato prevedibile: al di là dei facili allarmismi, il prossimo 25 aprile non sarà quello del ritorno del fascismo in Italia (la Storia non funziona così), ma il primo celebrato sotto il governo più a destra da 78 anni a questa parte. Un governo che, come da pronostici, rivendica le sue radici e il suo rapporto (nostalgico) con il passato e fa di tutto per legittimare un retroterra culturale ben preciso. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: dal loro punto di vista la Liberazione non è l’occasione per festeggiare, ma per puntualizzare, rilanciare falsi storici o invocare una “pacificazione” tra vincitori e vinti che suona tanto come una parificazione tra chi ha lottato per la liberazione del Paese e chi, di quella oppressione, era autore o complice.
Non è la prima volta che esponenti della destra post–missina si prodigano in sofisticate giravolte retoriche pur di non riconoscere un carattere di unitarietà alla festa della Liberazione: anni fa, per esempio, Meloni propose di declassare il 25 aprile e il 2 giugno e di sostituirli con un’altra data di festa nazionale: il 4 novembre, l’anniversario della vittoria nella Grande guerra. Nel 2020 La Russa (e chi sennò?) suggerì addirittura – provate a non ridere – di trasformare il 25 aprile in una data da celebrare in memoria dei caduti di tutte le guerre, «compreso il ricordo di tutte le vittime del coronavirus». Quest’anno, poi, il presidente del Senato ha deciso di buttarla sul performativo: il prossimo 25 aprile volerà a Praga per partecipare alla riunione dei presidenti dei parlamenti dei paesi membri dell’Unione europea per sfuggire alle contraddizioni italiche. Qui visiterà il campo di concentramento di Theresienstadt e in seguito parteciperà alla deposizione di una corona al monumento di Jan Palach in Piazza San Venceslao. Insomma: nel giorno in cui l’Italia festeggia l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo, La Russa andrà a mille e duecento chilometri da Roma per commemorare un patriota simbolo della resistenza anti-sovietica cecoslovacca.
Un buon termometro del clima che vige nelle Aule alla vigilia del 25 aprile lo abbiamo avuto lo scorso 19 aprile quando, in Senato, l’opposizione ha presentato una mozione unitaria ispirata al (bellissimo) discorso che la senatrice a vita Liliana Segre ha tenuto all’inaugurazione della legislatura a palazzo Madama e alle parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella – in breve, un testo in cui ci si chiede per quale motivo ricorrenze come il 25 aprile, festa della Liberazione, il Primo maggio, festa del Lavoro e il 2 giugno, festa della Repubblica, debbano essere vissute come «date divisive» e non con «autentico spirito repubblicano»; per tutta risposta, la maggioranza ha presentato una contro–mozione intrisa di vittimismo, fondata sull’equiparazione tra l’antifascismo con l’anticomunismo come valori costituzionali (che, piaccia o meno, nel nostro Paese è difficile da sostenere, visto che la Carta fu scritta anche dai comunisti italiani) e sull’auspicio che «tutte le istituzioni» e «tutte le forze politiche», durante le celebrazioni, non colgano «occasione per attacchi ad avversari che pure si riconoscono nei principi». Un gioco di prospettive antitetiche che riassume alla perfezione quanto il tema della memoria collettiva continui a polarizzare non soltanto l’opinione pubblica italiana, ma anche chi siede nell’Emiciclo.
Il problema è che questa polarizzazione origina da un (gigantesco) fraintendimento di fondo, ossia il falso mito secondo cui la Resistenza avrebbe riguardato soltanto una contrapposizione tra “fascisti” e “comunisti”. In realtà nessuno impedisce a chi è anticomunista o anche solo parecchio moderato di rivendicare il momento storico della Resistenza, che deve essere inteso come un’esperienza trasversale. Una trasversalità ben visibile nella cosiddetta “svolta di Salerno”, avvenuta nell’aprile del 1944, finalizzata a trovare un compromesso tra partiti antifascisti, monarchia e Badoglio, che consentisse la formazione di un governo di unità nazionale al quale partecipassero i rappresentanti di tutte le forze politiche presenti nel Comitato di Liberazione Nazionale. Sembra quasi banale dirlo, ma il fine ultimo della Resistenza non era quello di instaurare un regime comunista, ma di sconfiggere i nazifascisti e porre fine a un lunghissimo conflitto armato che aveva devastato l’Italia. Come ha spiegato Alessandro Barbero, «una parte del mondo non entusiasta dell’antifascismo si è convinta che la Resistenza sia stata una “cosa dei comunisti”. Ecco perché spesso in Italia oggi assistiamo al fenomeno abbastanza grottesco di alcuni politici che dichiarano di essere di destra e arricciano il naso quando sentono cantare Bella ciao, perché la considerano una canzone comunista. Bella ciao è, in realtà, una canzone di cittadini italiani che si svegliano al mattino e trovano il Paese invaso da dominatori stranieri».
In breve: rilassati, non devi possedere una copia del Manifesto del Partito Comunista per scendere in piazza e celebrare la Liberazione, puoi unirti al cortei anche se pensi che non sia giusto attribuire due metri di terreno a chiunque e consideri l’economia pianificata un’aberrazione demoniaca. La conditio sine qua non è davvero semplicissima da soddisfare: è sufficiente concordare su un semplice punto, ossia che il fascismo non è un’opinione, ma un’ideologia inaccettabile che ha condotto il Paese alla rovina causando centinaia di migliaia di morti, distruggendo ogni assetto istituzionale e perseguitando gli ebrei e le altre minoranze. Se non condividi questo (basilare) presupposto, se continui a pensare che il 25 aprile sia “divisivo”, be’: la risposta dattela da solo.