In generale, se chiedi a una persona qualsiasi di dirti qualcosa sul wrestling, ti dicono solo e soltanto due parole: Hulk Hogan. I più giovani, forse, ricordano John Cena. Qualcun altro potrebbe persino dirti che Dwayne Johnson, se non erra, faceva il lottatore, guarda com’è grosso. O ti nomina la WWE. E finisce qua.
Per l’opinione pubblica, il concetto stesso del wrestling e la World Wrestling Entertainment sono legati in un binomio talmente inscindibile che, pur nel caso vedessero incontri di lottatori giapponesi o europei, penserebbero subito siano della WWE. Il motivo di ciò è dovuto principalmente al monopolio assoluto e senza scrupoli esercitato da un uomo solo, colui che ha fatto sì che quei nomi che il pubblico conosce diventassero tali: il promoter, il chairman, il CEO dell’organizzazione di Sports Entertainment più famosa al mondo, ma di cui pochi, al di fuori degli appassionati, sanno il nome: Vincent Kennedy McMahon, 77 anni questo agosto, il quale ha avuto un 2022 che potrebbe essere considerato l’anno più rappresentativo della sua vita.
Nei programmi della sua federazione, McMahon è solito interpretare una presupposta versione esagerata di se stesso, Mr. McMahon, il Boss della WWE, cattivo e spregiudicato, sempre pronto a fregare e rovinare il prossimo e che parla con un vocione esagerato, da cartoon villain. Ai più, potrebbe essere noto come l’uomo di un famoso meme che spopola sul web senza alcuna idea del contesto in cui si è svolto.
Ma recenti avvenimenti, che confermano voci e sospetti che esistono da più di trent’anni, ci indicano che, forse, quel Mr. McMahon dello schermo non sia poi tanto diverso da quello del dietro le quinte. Chi è già appassionato di questa strana forma di teatro mista al circo chiamata wrestling sa che non basterebbe un solo articolo per descrivere qualcuno come Vince McMahon. Se per questo, con ogni probabilità non ne basterebbero nemmeno dieci, cento, e forse nemmeno mille.
E non è bastato il recente documentario uscito per Vice TV, The Nine Lives Of Vince McMahon, a farlo. Il documentario è giustamente criticato dagli spettatori, dai fan ai meri curiosi, per essere un semplice patchwork di altri episodi di una serie di Vice TV, Dark Side of the Ring, che esplora per l’appunto le storie più scabrose e drammatiche del mondo del wrestling, mischiate con poco girato originale.
Del CEO della WWE si parla dicendo quel poco che si sa di sicuro dai vari materiali che si trovano in giro. Il resto sono storie collegate alla sua figura. Da quanto dice il giornalista punto di riferimento per quanto riguarda il wrestling, Dave Meltzer, molte persone, tra i collaboratori storici di McMahon o i suoi ex dipendenti, sono state contattate per prendere parte al progetto, ma hanno rifiutato. Si potrebbe dire che hanno rifiutato per rispetto, o anche per paura. Rispetto nel caso di chi ha potuto lavorare e avere un sostanzioso stipendio grazie a McMahon. E paura al pensiero di eventuali ripercussioni per quello che avrebbe potuto essere visto alla stregua di un “tradimento”. Questa è la mentalità degli “addetti ai lavori” del wrestling, soprattutto nei riguardi di colui che ne viene considerato – giustamente o meno che la si veda – il capo assoluto.
Probabilmente sapeva anche Vicd stessa della poca riuscita di questo progetto, che ha ricevuto infatti pochissima pubblicità ed è andato in onda la sera tardi, quasi come a voler fare sì lo vedessero meno persone possibili. Con ogni probabilità, non basterà nemmeno la biografia (ovviamente non autorizzata), in uscita – per il momento – l’anno prossimo, per descrivere una figura come quella del promoter di wrestling più famoso del mondo. Gli scandali e le storie su di lui sono molteplici, per un motivo o per l’altro si è ritrovato sempre nell’occhio del ciclone, ma ne è sempre uscito senza che nessuno gli desse importanza, e, soprattutto, ne è uscito impunito. Il controllo assoluto che esercita su una intera parte dell’industria dell’intrattenimento parla da sé. Ma chi è, allora, Vince McMahon?
Affrontare questo argomento richiede una premessa: a questa domanda non si sa ancora bene cosa rispondere; parafrasando Bret Easton Ellis, si può dire che c’è una vaga idea di Vince McMahon, una sorta di astrazione. È come una pura entità, qualcosa di illusorio. Dopotutto, come si concilia nella stessa persona il Vince McMahon che in TV, con gli occhi spiritati, dice di eccitarsi a distruggere le vite altrui, quello che monologa come un maniaco, che ogni due per tre dice qualcosa di inimmaginabile, con la sua immagine pubblica di miliardario, la cui ex moglie ha fatto parte del governo Trump, ma che dice, come se fosse una cosa da niente, di allenarsi fino alle 3 del mattino a 76 anni? Per provare a trovare un senso a tutto ciò, è forse meglio partire dall’inizio.
Vincent Kennedy McMahon nasce nel North Carolina, da, Victoria Hanner, morta quest’anno all’età di 101 anni e Vincent James McMahon, il 24 agosto 1945. Il padre, noto a tutti come Vince Sr., è, come suo padre Roderick prima di lui, un promoter, organizzatore di incontri di wrestling, particolarmente influente nell’aria di New York e nella East Cost. I McMahon sono una famiglia di ricchi immigrati irlandesi, ma a Vince Jr – e a suo fratello maggiore Rod, morto l’anno scorso – quella agiatezza viene inizialmente negata. Non si conoscono i dettagli, ma quello che si sa è che suo padre abbandona la famiglia, lasciandoli nello zotico sud, in un trailer park come tanti altri. Da quel poco che Vince Jr. dice di quel periodo, nel corso di una intervista rilasciata a Playboy nel 2001 (a 56 anni, all’apice del successo mediatico), sappiamo che cresce come Vinnie Lupton, dal cognome del suo patrigno, un uomo volgare e violento, che era solito picchiarlo. Nel corso dell’intervista fa anche sottintendere che venisse abusato anche dalla sua stessa madre; in qual senso, lui non lo esplica. Del patrigno, sempre nel corso di questa intervista, McMahon dirà: «È un peccato che sia morto prima che potessi ucciderlo. Mi sarebbe piaciuto [farlo].» Si può intuire come questo periodo abbia profondamente traumatizzato il futuro miliardario, che nonostante il successo mostra di covare ancora un profondissimo rancore.
Quando ha 12 anni, Vince Jr. incontra suo padre per la prima volta. Il modo in cui questo incontro sia avvenuto è anch’esso vago. Si sa solo che Vince Sr. si ricongiunge con la famiglia, portandoli a vivere con sé sulla Costa Est, ed è così che Vince Jr. lascia l’odiato Sud e viene introdotto al mondo e alla professione del padre, di cui vuol far parte. Una volta raggiunta l’età adulta, Vince Jr. fa gavetta prima come intervistatore e commentatore, e poi il padre gli lascia promuovere eventi in piccole città. E non solo wrestling, ma anche concerti, incontri di boxe, e partecipa alla promozione di incontri storici come quello tra Mohammed Ali e Antonio Inoki del 1976. Vuole diventare un wrestler, ma Vince Sr. glielo nega: i promoter non possono apparire nello show. Devono stare dietro le quinte. Forse questo rifiuto aumenta ancora di più la sua ambizione: se non può essere one of the boys, può diventare il loro capo. Nel 1982, Vince Jr si riunisce con suo padre e i suoi soci in affari, proponendo loro un’offerta: lasciare il controllo della loro compagnia, la WWF (World Wrestling Federation, in futuro rinominata WWE), a lui. Pagherà il suo debito a poco a poco, e se non dovesse avere abbastanza soldi per i pagamenti, l’intera compagnia tornerà nelle loro mani, e lui continuerà a dover pagare l’onere nei loro confronti. Quindi, che vada male o bene, tutte le parti avranno versate comunque un considerevole ammontare di soldi. La scommessa viene accettata. Vince McMahon acquisisce la federazione del padre (il quale, tra l’altro, morirà due anni dopo, di cancro al pancreas) e inizia ad espandersi.
McMahon Jr. non vuole essere, infatti, solo il capo della East Coast. Lui punta in grande, mira a fare show in tutti gli Stati Uniti. E, per molti altri promoter in tutta la nazione, questa espansione della WWF viene vista come una grande bestemmia, perché ci sono delle regole. Il wrestling, a inizio anni ‘80, funziona ancora a territori. Ogni Stato, in generale e perlopiù, ha una singola grande federazione che gestisce quasi tutta quell’area, e va in televisione sulle seguitissime TV locali. Tutti tendono a rispettare il territorio degli altri e a non invaderlo. Internet non c’è ancora, per molti il mondo finisce e comincia lì dove sono nati. Ma Vince inizia a promettere ai lottatori più famosi di tutta la nazione più soldi di quanti ne possano guadagnare rimanendo nel proprio recinto, e compra spazi televisivi in ogni Stato, violando le regole, andando lì con la sua federazione per far vedere agli americani cosa può offrire la WWF. Come denota un articolo di Linkiesta, quella di McMahon è una strategia non dissimile da quella usata da Silvio Berlusconi per l’ascesa di Mediaset.
A Vince Jr. manca solo una cosa: una star. Anzi, LA star. E la trova nel Minnesota, immensamente popolare in seguito alla pur breve parte che ha avuto in un film di enorme successo, Rocky III: Hulk Hogan. Vero nome Terry Bollea, anche lui di origini irlandesi, Hogan vuole principalmente due cose: soldi e il titolo di campione mondiale che spetta di diritto a uno così popolare con gli spettatori paganti. Vince gli concede entrambi. Il 23 gennaio 1984, ad appena un mese dal debutto in WWF, Hogan vince il World Heavyweight Championship, e il boom gigantesco del wrestling con la sua leggendaria Hulkamania può avere finalmente inizio. Vince riesce, tramite le sue connessioni, a portare star della musica popolarissime come Cindy Lauper e celebrità simbolo degli anni ‘80 come Mr. T nelle sue trasmissioni. Questo periodo sarà definito come Rock ‘n’ Wrestling. Nel marzo 1985 si fa la grande scommessa di Wrestlemania, pubblicizzato come il più grosso, diffuso e importante evento annuale di wrestling – che quest’anno arriverà alla trentanovesima edizione. Il suo successo, sia oggi che ai tempi, è testimonianza dell’allora grande vittoria di Vince McMahon, il quale da quel momento in poi avrà pensato di poter regnare incontrastato.
D’altronde, chiunque provi anche solo a pensare di poterlo ostacolare viene fatto vittima di tattiche scorrette, come quando, nel 1987, ricattò i gestori dei canali Pay Per View per convincerli a non mandare in onda Starrcade, il nuovo grande evento dell’altra grossa compagnia d’America, la JCP (Jim Crockett Promotions). Se avessero dato spazio alla sua concorrenza, quei canali non avrebbero più visto i remunerativi eventi della WWF. E questi canali furono costretti a cedere al ricatto del promoter di wrestling più di successo del momento. Possiamo quindi intuire come la concorrenza sleale sia la tattica preferita da un Vince in continua espansione: organizza eventi con il suo grande amico, l’allora “semplice” magnate dell’edilizia Donald Trump, nei suoi casinò, incrementando il proprio giro d’affari. Sono gli anni di Andre The Giant, Rick Rude, Ted DiBiase, Randy Savage, Ultimate Warrior, nomi che tutti i nostalgici e appassionati di quegli anni ricordano. I lottatori dai fisici incredibili, super pompati, dalle personalità memorabili, estreme e colorate, che sembrano più grandi della vita stessa. Gli anni ‘80 sono considerati l’età dorata del wrestling per un motivo, e Vince McMahon ne è stato il burattinaio.
Tutto questo successo, forse, convince McMahon di essere intoccabile. Nel 1986 avrebbe, infatti, costretto Rita Chatterton, primo arbitro donna della sua federazione, ad avere rapporti sessuali con lui, facendole violenza. La Chatterton non ha mai potuto denunciare il suo capo, protetto com’era questi sia dalla cultura yuppie di allora, sia dalla sua intoccabilità nell’ambiente, ed è costretta ad abbandonare il mondo del wrestling in seguito all’accaduto. Ormai perso nel delirio di onnipotenza, un noncurante McMahon prova ad espandersi fuori dal wrestling, nel 1989, con il film Senza esclusione di colpi (No holds barred), con protagonista proprio il suo nome di punta, The Hulkster, Hulk Hogan, ma è un mezzo flop. Nonostante la sua immensa popolarità, il pubblico preferisce che il biondo e baffuto campione stia sul ring, piuttosto che sul grande schermo. È anche questo il precursore dei tanti, futuri fallimenti dell’ex CEO, avvenuti ogni singola volta in cui ha provato a mettere piede fuori dalla propria bolla.
McMahon, nonostante il passare degli anni, continua poi a mettere sempre Hogan al centro dello show – anche perché è lì che Hogan stesso esige di rimanere. Ogni volta che si prova a costruire una nuova star che possa sostituire l’Hulkster, questi fa in modo di mettersi sempre al centro dell’attenzione, addirittura fingendo di volersi ritirare, per convincere il pubblico a tifarlo per non vederlo andare via, a considerare solo lui come l’unico vero simbolo della federazione e del wrestling stesso. Vince, colpevolmente, lo asseconda sempre in tutto. Ma Hogan sta invecchiando, il pubblico non vuole vedere sempre lui negli incontri di cartello, e la popolarità del wrestling, all’inizio degli anni ‘90, va diminuendo. Forse la bolla è scoppiata. La WWF prova a capitalizzare sulla Guerra del Golfo, e manda in onda una storia in cui Hogan affronta un simpatizzante di Saddam Hussein, strappando in diretta la bandiera dell’Iraq, cercando di capitalizzare sul gingoismo più becero. Ma è un flop, e sembra che la WWF inizi a perdere colpi sempre più velocemente.
Nel 1992 Hogan lascia momentaneamente la federazione per cercare di sfondare nel cinema, con film per famiglie di basso livello e di scarso successo. Mentre la sua star principale non è in giro, McMahon prova un’avventura in un’altra nicchia: fonda la World Bodybuilding Federation, il cui scopo è diventare essenzialmente la WWF, ma per il bodybuilding. Nulla cambia nella tattica di Vince McMahon per fare concorrenza alla IFBB (International Federation of BodyBuilding and Fitness), la regina delle organizzazioni di bodybuilding: prova a dare personaggi ai bodybuilder, come ha fatto coi propri wrestler, pensando che questo intrigherà di più il pubblico; si infiltra alle convention di fitness per distribuire, sottobanco, volantini dei suoi eventi; prova a capitalizzare l’interesse del pubblico sull’arrivo di una celebrità, Lou Ferrigno, nel programma, ma questi chiede troppi soldi, e l’accordo salta. È un altro colossale fallimento, figlio di una mentalità che non riesce a pensare che forse, quello che funziona in un contesto narrativo come il wrestling – in cui i lottatori devono comunque raccontare una storia nel corso dell’incontro – non può funzionare in un altro che narrativo non è, come il bodybuilding, puramente agonistico.
Come se non bastasse, la federazione si trova ad affrontare un altro scandalo, a sfondo sessuale e di droga, che ne mina ulteriormente la popolarità, costringendo Vince in persona ad apparire in TV per cercare di difendersi. È una delle poche volte, sinora, in cui McMahon ammette pubblicamente di essere il capo della WWF. Per i più, che non guardano programmi del genere, lui è solo un commentatore con dei gessati dai colori vivaci. McMahon stesso ci tiene che sia così, di modo da poter essere parte dello show, ma evitando di mettersi in primo piano rispetto al prodotto. Un modo per aggirare i dictat del padre. Se lui non è il promoter, o se nessuno sa che lui lo sia, può tranquillamente stare in mezzo ai lottatori, sentirsi uno di loro. Solo chi legge le riviste di settore specializzate o legge i dirt sheets, cioè le strisce giornalistiche di gossip e storie diffuse dai lottatori stessi, sa che lui è anche il capo di tutta la baracca. Ma Vince si trova sotto un effetto domino totale, e molti lottatori incominciano a lasciare la federazione per evitare danni d’immagine.
Il peggio deve ancora arrivare. Nel 1994 incomincia il processo per lo “scandalo steroidi”. Lo scandalo definitivo della storia della WWF tutta, fino a poco tempo fa. Nell’88 una legge antidroga aveva criminalizzato la somministrazione di steroidi e le leghe che favorivano questa pratica antisportiva, come il baseball o il football. Per la presentazione della WWF, invece, fino a quel momento, gli steroidi erano una delle basi fondamentali, se non il fondamento stesso di tutto il prodotto. Se molti lottatori dell’epoca oggi non sono più tra noi è per via anche delle immense quantità di droghe e steroidi che iniettavano nei loro corpi. Nell’89 McMahon scopre che il suo somministratore di steroidi di fiducia, il dottor George Zahorian, sta venendo indagato. Nel ‘91 viene trovato colpevole di dodici capi d’accusa, e cerca di trascinare McMahon con sé, essendo Vince uno dei suoi compratori principali. E Vince viene così accusato di traffico di droghe e di aver ordinato ai suoi lottatori di assumere sostanze illecite. Vince sa di essere colpevole e sa di rischiare anni di galera molto seri per questa cosa. Allungando disperatamente i tempi dei procedimenti legali, Vince le prova tutte, presentandosi addirittura con il collo fasciato per cercare di attirare le simpatie della giuria.
Il supertestimone dell’accusa, Hulk Hogan in persona, può distruggere il suo capo semplicemente ammettendo che sì, Vince gli ordinava di prendere steroidi per sembrare quanto più grosso e in forma possibile. Ma non lo fa. Secondo Hogan, Vince non gli ha mai detto esplicitamente di prendere steroidi. Era una cosa che facevano insieme in palestra, senza pensarci, perché facevano allenamenti insieme. E così facendo, alla fine del processo, la giuria dichiara Vince McMahon non colpevole. Si può dire che Vince sia non colpevole del reato imputatogli perché non si ha la prova certa che abbia dato l’ordine di commetterlo. In un certo senso, in maniera perfettamente eguale alla “innocenza” di Mussolini nel ruolo avuto nell’omicidio di Giacomo Matteotti. Nell’episodio di Dark Side Of The Ring dedicato al tema, il fido avvocato di McMahon, Jerry McDevitt, parla di come, alla dichiarazione di non colpevolezza, Vince sia esploso in urla di gioia e celebrazioni, abbracciando contento il proprio avvocato sotto gli applausi scroscianti della giuria popolare. Un altro coup de théâtre da parte di un uomo che in un certo senso, col teatro, ci vive.
E qui si ritorna al discorso di sopra: Vince McMahon appare come totalmente inscindibile dalla futura immagine televisiva che metterà in scena. Fino a questo punto si era limitato ad apparire come un semplice spettatore a bordo ring, intento a commentare e promuovere il proprio show, dati che, prima ancora, il padre gli aveva detto che non avrebbe mai potuto diventare un lottatore. Ma, in tempi di crisi o di limitazioni, l’ingegno dell’uomo tende ad aguzzarsi. Dopo lo scandalo steroidi, infatti, Vince e la WWF sono in piena crisi. Con gli spettatori e le vendite dei biglietti e dei Pay Per View al minimo, la compagnia sta andando in rosso. E la concorrenza è sempre più agguerrita,nella forma World Championship Wrestling (WCW) di Ted Turner, il miliardario magnate delle televisioni, che ha acquisito la Jim Crockett Promotions per portarci dentro i suoi immensi capitoli. Turner ha molti più soldi di Vince e si compra alcune delle sue più grandi star, inclusi Hulk Hogan e Randy Savage, sottraendoli a un McMahon che si ritrova ai minimi storici. Il clima culturale degli anni ‘90 sta cambiando, e quella che una volta era la più grossa federazione del paese non sembra riuscire ad intercettare i gusti del pubblico televisivo. Finché non arriva la svolta.
L’ultimo colpo arriva sul finire del 1997, quando si diffonde la notizia che Bret Hart, popolarissimo wrestler canadese, in quel momento campione massimo della WWF, ha accettato di passare dal lato di Ted Turner per un contratto plurimilionario, laddove le casse della federazione di McMahon piangono sempre più lacrime amare. Bret potrebbe lasciare la federazione da campione, e Vince ha il terrore che il suo campione massimo potrebbe apparire nei programmi televisivi dell’odiato Turner con il WWF Championship in mano e buttarlo nel cassonetto dell’immondizia. E così, insieme ai suoi consiglieri più fidati, viene ordito lo Screwjob di Montreal, il più importante, controverso e discusso evento del mondo del wrestling da venticinque anni a questa parte. E che si rivelerà essere sia il picco che la genesi del Vince McMahon persona e personaggio.
In sintesi, la situazione è questa: Bret Hart deve difendere il WWF Championship un’ultima volta nel suo stato, il Canada, nella città di Montreal. Lo fa contro l’odiato Shawn Michaels, pupillo di Vince, lottatore fenomenale ma anche una primadonna capricciosa. I due si odiano visceralmente, non un odio finto, ma uno vero, fisico, soprattutto quando Shawn, con un colpo basso, ha accusato in diretta TV Hart di tradire la moglie con una valletta. Bret non vuole perdere contro Shawn nella sua nazione. Si rifiuta. Il giorno dopo il suo contratto con la WWF scade.
Bret, uomo onesto e onorevole sul luogo di lavoro, giura che non andrà dalla concorrenza con il titolo massimo e che lo lascerà a Vince il giorno dopo. Ma McMahon non sembra voler correre nessun rischio. La notte dell’incontro, in diretta Pay Per View, sul finale, Vince ordina di far suonare la campanella prima della fine, assegnando la vittoria e il titolo a Shawn Michaels. Bret Hart è stato fregato. Furibondo, il canadese sputerà in diretta a McMahon, che si rivela per quello che è: il capo del dietro le quinte, il vero boss della WWE. Backstage, Bret mollerà un cazzotto al suo ex capo, cazzotto che comunque non lo ripagherà della fiducia tradita e del rispetto perso.
Da un lato, Vince ha commesso il gesto più esecrabile e criminale della propria carriera – ha attivamente ingannato e truffato un proprio dipendente in diretta TV. Ma la cultura del mondo del wrestling non prevede denunce, battaglie legali tra lottatore e promoter, non a questi livelli. Bret se ne andrà alla concorrenza, e lascerà il suo ex capo in pace. E, dall’altro lato, ora Vince non si nasconde più. Può pubblicamente dire di essere il capo della WWF in televisione, tramutandosi da se stesso nel personaggio di se stesso. È il debutto di Mr. McMahon, il cattivo senza scrupoli che non mostra un briciolo di rimorso per le proprie azioni. Va comunque detto che, in mezzo a tutti i miliardari e datori di lavoro vari che possano venirci in mente, Vince rappresenta un unicum: pochi come lui hanno accettato di sanguinare, cadere dalla cima di gabbie, essere pestati o umiliati in diretta mondiale pur di mandare avanti il prodotto e alzare i ratings televisivi. Vince ha potuto finalmente entrare nel ring della propria compagnia, amandone ogni secondo.
Questo comporta anche il debutto di una nuova WWF: estrema, volgare, politicamente scorretta, forse pure troppo. Di fronte alle storie di donne oggetto, volgarità, razzismo, misoginia, alcool, droghe, aborti e violenza domestica di quella che sarà nota come l’Attitude Era del pro wrestling, anche i paladini del politicamente scorretto più agguerriti potrebbero aggrottare le sopracciglia, si spera. Il successo all’epoca è totale, paragonabile a quello degli anni ‘80, ma più contenuto. La WWF torna mainstream, sconfigge – anche con l’aiuto di fattori esterni – la WCW di Turner, e Vince, nel 2001, se la compra per un paio di milioni di dollari. Due spiccioli, nel mondo dei tycoon. È l’inizio del monopolio della WWF, che diventa WWE in seguito a uno scontro legale col World Wildlife Fund, che non vuole che i propri acronimi vengano associati.
Vince, intanto, ha provato ad uscire dal wrestling, ostentando la propria sicumera e certo della sua vittoria su tutti i fronti: questa volta, il nemico è la National Football League. Nasce la XFL, acronimo di Xtreme Football League, che, nell’idea del tycoon, deve sostituire la NFL e diventare la lega di football più popolare di tutto il paese, se non di tutto il mondo. Un fallimento su tutti i fronti. McMahon prova a portare l’Attitude Era nel football, tra The Rock, cheerleaders spogliarelliste e giocatori con gimmicks, cioè personaggi esagerati, non rendendosi conto che c’è un motivo se il wrestling rimane, di per sé, una nicchia, soprattutto rispetto allo sport nazionale americano. I giocatori, a parte pochissime eccezioni, rifiutano quest’idea di avere personaggi, loro vogliono solo giocare a football. Sono esclusi dalla NFL perché non al livello richiesto dalla lega, e le partite della XFL sono disordinate, brutte e poco avvincenti. Dopo un grosso inizio, i ratings televisivi finiscono giù nel baratro dell’indifferenza generale. Non contento di questo fallimento, McMahon ci riproverà nel 2019, annunciando una nuova stagione che avrebbe avuto inizio l’anno successivo. Il 2020. Al resto ci ha pensato il Covid. Oggi, la XFL è in uno stato vegetativo, ed è stata acquistata per un rilancio da quel Dwayne Johnson che a Vince tanto deve e che pubblicizzava la prima partita della XFL. Forse, a lui andrà meglio. Anche se sembra di no.
Chiusa questa parentesi, Vince rimane nella sua federazione. Continua a fare affari con Trump, che nel 2013 entrerà nella Hall Of Fame della WWE, l’ala delle leggende, dei famosi e degli amici della federazione. Tre anni dopo, Vince potrà vantarsi che il suo amico e Hall of famer è il Presidente degli Stati Uniti. Per più di venti anni, tra una controversia e l’altra, il CEO della WWE rimane intoccabile, perfettamente al sicuro nella torre d’avorio della sua nicchia plurimiliardaria. Incomincia una partnership con il governo dell’Arabia Saudita, parte del piano del principe Mohammad bin Salman Al Sa’ud, detto anche MBS, per il rilancio culturale del paese agli occhi del mondo. Una partnership controversa, minata agli occhi dell’opinione anche dalla morte del giornalista Jamal Kashoggi, oppositore del governo. Ma Vince ha preferito non abbandonare i suoi nuovi amici, che gli garantiscono ben cinquanta milioni di dollari a ogni show che fa lì, esentasse e con spese di viaggio, vitto, alloggio e scenografia a carico del governo saudita. Sono cifre che nemmeno Wrestlemania stessa riesce a fare.
Si arriva, così al 2022: un anno che inizia con la morte della madre di Vince. Come si sia sentito al riguardo, non ci è dato saperlo. Vince si prepara a un’altra grandissima stagione d’affari, a una nuova Wrestlemania a cui aggiunge qualcosa in più, a questo giro: se stesso. Non è raro che McMahon lottasse nel suo evento più grosso, ma ormai ha un’età. Forse non è salutare sforzarsi troppo. Eppure, lui persevera. Affronta Pat McAfee, analista ed ex giocatore di football, da un paio di anni amatissimo cronista WWE e occasionalmente lottatore, che è ormai dipendente fedelissimo della compagnia. Vince appare nel seguitissimo podcast di McAfee, una delle più lunghe tra le poche interviste che ha mai fatto. Alla fine, Vince McMahon torna nel personaggio (o forse non ne è mai uscito) e invita Pat a lottare a Wrestlemania. Pat accetta. La sera di Wrestlemania, Vince gli manda contro prima il suo nuovo protetto, il giovane Austin Theory, e poi, a sorpresa, subito dopo, se stesso. L’incontro è una breve coreografia ben preparata, e alla fine Vince riesce a sconfiggere l’avversario, diventando il lottatore più anziano ad aver mai lottato in WWE. Lui stesso, il proprietario della compagnia, rimarrà nella sua storia anche per questo motivo. Forse era il lieto fine che lui aveva tanto desiderato, sin da bambino.
E invece, questo giugno, in seguito a una inchiesta del Wall Street Journal, è venuto fuori che McMahon, nel corso degli anni, avrebbe pagato cifre milionarie per far tacere diverse donne – dalle assistenti alle dipendenti – dopo averle costrette a rapporti sessuali. All’inizio, le tante speculazioni vengono affrontate da Vince con la solita faccia tosta, apparendo davanti al pubblico del suo show come se niente fosse, parlando di come la WWE avrà successo per sempre, e soprattutto, insieme al suo pubblico. Quasi a come a chiedere loro l’incondizionato supporto contro lo scandalo che sta per colpirlo. McMahon sembra voler apparire forte e indomito davanti alla “gogna mediatica”, ma il suo gioco non può nemmeno iniziare, giacché viene scoperto che le cifre milionarie che avrebbe speso per acquietare le sue vittime provenivano direttamente dai fondi della compagnia, giustificate tra aumenti di stipendio e bonus di vario genere. Insomma, di concreto si può dire che McMahon abbia commesso un peccato capitale per il mondo della finanza: essere beccato a sottrarre i soldi da soci e investitori. E la cultura è cambiata. Ora di fronte a casi di abusi sessuali come questo non ci si gira più dall’altra parte e l’opinione pubblica non può accettare che una cosa del genere rimanga impunita.
Ed è per questo che, alla fine, McMahon è costretto a ritirarsi dalla gestione della propria creatura, per evitare ulteriori danni d’immagine e legali. Ovviamente, nella motivazione ufficiale, si parla solo dell’età, dicendo che 77 anni sono troppi per gestire una compagnia attivamente, dopotutto. Decadi di carriera e un regno che sembrava essere destinato a durare sino alla sua morte apparentemente finiti, e tutto questo nel giro di un paio di mesi. O almeno, così sembrava. È infatti di pochi giorni fa la notizia che, a quanto pare, in contrasto con la motivazione data, Vince McMahon voglia già ritornare al comando della WWE. Dopo aver lasciato la federazione in mano alla figlia Stephanie e al genero Paul Levesque, ex lottatore conosciuto come Triple H, l’ex CEO della WWE sembra non abbia saputo resistere nemmeno sei mesi alla tentazione di tornare di nuovo a prendere in mano le redini della propria creatura, una WWE che in questo momento, forse, aveva bisogno di liberarsi di un vecchio padrone rimasto fermo a metodi vecchi, a una cultura tossica, yuppie, maschilista, e che ha macchiato più volte la federazione con l’ombra dello scandalo. Insomma, se Vince volesse davvero tornare, potrebbe incontrare una resistenza più violenta del previsto, sia dalla famiglia che dai suoi stessi soci in affari.
Magari, forse, la resistenza è quello in cui spera. Dopotutto, lui ha sempre amato combattere, sia sul ring che fuori dal ring. Vince McMahon, dopo una attenta analisi, risulta essere, alla fine di tutto questo, a differenza di molti altri della sua risma, e pur essendogli uguale in tutto e per tutto in molte altre cose, un uomo, un mostro, che contiene mondi, una moltitudine esorbitante di nevrosi capitalistica, traumi e sete di potere che si fondono e si confondono tra l’uomo e il personaggio interpretato sul grande schermo. In un certo senso, Vince McMahon si potrebbe definire come un uomo postmoderno, prima di tanti altri, un uomo indistinguibile dal personaggio che interpreta in TV, in cui non si sa dove incominci uno e finisca l’altro; si potrebbe dire che il personaggio televisivo sia l’espressione più autentica dell’uomo che lo interpreta, una perversione estrema che forse nemmeno Stanislavskij avrebbe mai potuto concepire nei più remoti angoli della propria mente; più esagerato di un Trump, più sincero di un Berlusconi e più squalo di un Musk, tutto alla luce del sole, eppure perfettamente all’ombra. Anche questo è Vince McMahon.
Per chiudere questa disamina, lunga, ma forse non lunga abbastanza, su di un uomo che ci dice molto più di quanto pensiamo sulle nevrosi dell’era capitalista e sui loro effetti, mi affido a un articolo uscito anni fa, dedicato a McMahon, sul magazine Cigar Aficionado, un articolo poco conosciuto, ma al cui interno ho trovato una cosa che trovo colga perfettamente l’essenza stessa del miliardario, del personaggio, dell’uomo. Verso la fine dell’articolo McMahon in persona rivela al giornalista suo interlocutore che, dilettandosi nello scrivere canzoni da giovane, mise giù un testo che conteneva queste parole – le quali, più di ogni altre, lo rappresentano: “Sono un uomo che corre selvaggio, puntando alla cima/Lungo la strada, vedrai un sacco di uomini cadere.” (I’m a man running wild, I’m heading for the top/Along the way, you’re going to see a lot of men drop).