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Ottavio Cappellani: «Andavo in classe col figlio del boss, poi facevo il bagno con chi rappresentava l’antimafia»

Scrittore catanese tradotto in tutto il mondo e amatissimo negli Stati Uniti, in questa intervista ci fa entrare nel suo mondo e sfata diversi luoghi comuni sulla "Sicilia arretrata", sulla bellezza della natura, sulla grandezza dell'amico Manlio Sgalambro e sui “colletti bianchi”, veri o presunti

Foto di Leonardo Cendamo/Getty Images

Ha scritto libri tradotti in tutto il mondo dalle migliori case editrici, è stato stato un caso letterario negli Stati Uniti, ma in Italia nessuno lo ha preso in considerazione per il Premio Strega. Eppure, non se ne fa un cruccio: «È finto, però è divertente che vadano avanti come se niente fosse». La scenografia delle storie che racconta è sempre la Sicilia, tanto che è arrivato a “spiegarla agli eschimesi”, e nel prossimo romanzo sfaterà la visione di una terra in decadenza («chi la considera regredita non riesce a coglierne la portata apocalittica») e della bellezza della natura: «È un luogo di ferocia, non abitato da uomini ma da bestie». E se gli parli di mafia lancia la provocazione: «Che differenza c’è con la politica? Nessuna». Anche perché è convinto che il potere, in ogni forma, si basi «sugli omicidi». Lui se ne intende, dice, visto che nelle vene gli scorre “sangue blu” e perché, anche se è convinto che la nobiltà sia ormai diventata «un fenomeno kitsch», i suoi avi che discendono da Federico II erano sostanzialmente «degli assassini che andavano alle crociate». Insomma, parlando con lo scrittore Ottavio Cappellani non c’è mai niente che si possa dare per scontato. Allievo del filosofo, pardon, teologo come ci correggerà, Manlio Sgalambro, ci ha spiegato il loro primo incontro degno di un thriller: «Lo chiamai: “Professore?”. Rispose: “Sì, mi dica”. E ammisi a bruciapelo: “Guardi, francamente sono con una pistola in bocca e sto per spararmi”. E lui: “Mi sembra un’ottima idea”». Così com’è stata un’ottima idea navigare, e persino naufragare, attraverso il pensiero di questo intellettuale atipico, «lontano geograficamente, più che culturalmente» dai salotti mainstream. Ha appena venduto i diritti di un suo romanzo per un progetto cinematografico e, quando gli chiediamo cosa si aspetta dal futuro, premette che «siamo metà libero arbitrio e metà circostanze». Per poi compiere un passo estremo quando affrontiamo il tema della morte: «Il suicidio è implicito nell’esistenza. E siamo già tutti suicidati da Dio».

Partirei dalla tua biografia che recita: «Proveniente da un’antica e nobile famiglia siciliana, i Cappellani di Pirainito».
Siamo arrivati in Sicilia con Federico II, imparentati con sua madre Costanza d’Altavilla. Partecipammo alle crociate e poi ci furono donati dei terreni nella Sicilia sud orientale. Da parte di madre ho sangue ebreo e da parte di padre sono Cavaliere gerosolimitano difensore del Santo sepolcro e Cavaliere di Malta, quindi protettore dell’Occidente cristiano. Ma sono anche di origini templari, discendo da quelli che furono bruciati perché accusati di aver cospirato con l’Islam, mentre in realtà fu un tentativo di pacificazione tra religioni. Così porto dentro l’ebraismo, il cristianesimo e l’islamismo. Insomma, se sono rincoglionito è per questi motivi, oltre che per i matrimoni misti. Infatti è una vita che cerco una sintesi, anche a causa di questa storia familiare.

È stata una infanzia diversa dagli altri tuoi coetanei visto il lignaggio?
No, perché papà non amava sfoggiare il blasone. Abbiamo sempre creduto alla nobiltà dello spirito, alla Thomas Mann. La nobiltà non è qualcosa di ereditario, ma di spirituale. Papà sposò una plebea, uscendo dalla tradizione, quindi l’aristocrazia è rimasta solo un riferimento storico-culturale. Però mi ha formato la consapevolezza che ogni forma di potere nasce dagli omicidi. I miei antenati erano assassini, alle crociate uccidevano. E questa consapevolezza mi fa detestare il potere.

Hai frequentato l’aristocrazia?
Sì, ma per prenderla in giro. Non esiste più nulla di quello che poteva esserci secoli fa. È rimasto soltanto l’epifenomeno, cioè gli effetti secondari. Come la manina floscia… Lo ha descritto molto bene Hermann Broch nel libro Il Kitsch, che non è altro se non la perdita di connessione tra forma e funzione. Quindi l’aristocrazia l’ho sempre guardata con divertimento, come fenomeno kitsch.

La funzione era solo quella del potere?
Intanto ne faceva parte chi poteva leggere, scrivere e riflettere. Quindi erano quelli che distribuivano il sapere. I grandi artisti sono stati sostenuti in passato dai mecenati. Ma purtroppo tutto questo è andato irrimediabilmente perso.

Quando hai capito che la scrittura sarebbe stata la tua strada?
Quando ho preso coscienza di non saper fare nient’altro. È sempre stata una sicurezza.

C’è un momento in particolare in cui lo hai compreso?
Non so perché, ma da piccolo, già all’asilo o poco prima, i primi regali che chiesi ai miei genitori furono un quaderno e una penna. Alle elementari già scrivevo. Sono stati i miei primi desideri.

Facciamo un salto in avanti, al tuo esordio letterario con La morale del cavallo. Com’è nato quel libro che già poteva vantare la postfazione di Manlio Sgalambro?
Verso i 20 anni attraversai una grossa crisi esistenziale. Sono di formazione teologico-filosofica e la lettura e la scrittura giovanili erano di quello stampo. A un certo punto, però, sentii il bisogno di mettere ordine nei pensieri, anche perché nel frattempo studiavo giurisprudenza, che aumentava i miei dubbi. Avevo mandato degli scritti a Bompiani, nel ‘90, e mi chiamò il direttore dei classici Bompiani, Olimpio Cescatti: «Sono acerbi, ma legga un suo concittadino che si chiama Manlio Sgalambro», mi disse.

Attraverso i sui scritti sei arrivato anche alla sua conoscenza personale?
Lessi i suoi libri e un bel giorno presi l’elenco telefonico, cercai il suo numero di casa e lo chiamai: «Professor Manlio Sgalambro?». Rispose: «Sì, mi dica». E ammisi a bruciapelo: «Guardi, francamente sono con una pistola in bocca e sto per spararmi». E lui: «Mi sembra un’ottima idea». Io ero serio, ma non riuscii a trattenere le risate. Mi disse di lasciargli i miei scritti nella casella della posta e dopo qualche giorno mi chiamò, mi invitò a casa e nacque una grande amicizia.

Ricordiamo che Sgalambro, oltre che filosofo, è stato autore di alcune delle più belle canzoni di Franco Battiato.
Era un teologo, più che un filosofo. Riteneva che ogni disciplina dovesse avere il suo linguaggio. Un sabato sera, mentre passeggiavo, entrai in una libreria e trovai Luce virtuale di William Gibson. Non leggevo molti romanzi allora, però lo comprai. Grazie a quel libro compresi che si poteva fare teologia anche attraverso la letteratura. Il romanzo era considerato, fino all’800 e persino i grandi feuilleton, un genere minore. E i suoi lettori alla stregua di chi guarda oggi la tv trash. Erano libri popolari, ma intesi a livello popolano. Invece dietro la fantascienza distopica Gibson è un grande teologo.

Cosa c’entra tutto questo con il rapporto tra Sgalambro e Battiato?
Che portai il libro a Sgalambro e lo guardò con disprezzo. Poi dopo qualche giorno mi disse: «Le devo dare ragione». In quel periodo aveva appena iniziato la collaborazione con Franco Battiato. Infatti quel giorno era scosso e mi disse: «Mi è successa una cosa sconvolgete. Ho rilasciato una intervista al settimanale Oggi». È così che passò alle cosiddette canzonette. Dopo il mio esordio ricambiai scrivendo per lui la postfazione del suo Teoria della canzone.

Anche la tua scrittura dev’esserne stata influenzata, perché con il secondo romanzo arriva il successo: Chi è Lou Sciortino? viene tradotto in ventisei paesi, pubblicato dalla casa editrice Farrar, Straus & Giroux, che è tra le più prestigiose al mondo, e inserita nel Reading The World, e quindi tra i quaranta titoli più significativi pubblicati in quell’anno negli Stati Uniti. Un po’ come quando Battiato decise scientemente di avere successo?
Mi venne facile scriverlo perché avevo letto tanto. E dopo l’incontro con Gibson divorai molti altri romanzi. Ma soprattutto l’Odissea, sulla quale ogni tanto torno, che è la struttura di tutti i romanzi, così come di tutte le serie televisive. È il manuale di sceneggiatura più utilizzato. Quindi la struttura ce l’avevo in mente. La formazione granitica di filosofia permette ai miei libri di essere ben strutturati. Ma in quel romanzo contribuì la differenza dei linguaggi che conteneva.

Ogni personaggio ha il suo linguaggio.
Esatto, infatti mi incazzo quando parlano di etnia del nostro linguaggio. Non esiste un linguaggio italiano, come non esiste un linguaggio unico. Sono tutti imbastarditi. Così come quelli del Queens parlano diversamente da quelli del Bronx, quelli di Catania parlano un dialetto della civita diverso da quello di San Cristoforo. Per cui ogni personaggio ha una lingua, come in tutti i miei libri.

Con un esordio del genere ci si monta la testa?
Non ho avuto il tempo di montarmi la testa. Il libro uscì in aprile e mia madre morì di cancro a febbraio. Purtroppo non mi sono goduto tutto quello che è successo dopo.

Non solo i tuoi libri sono strutturati e ogni personaggio ha una sua lingua, ma sono anche profondamente legati alla tua terra. Altro romanzo che ha avuto parecchia fortuna è Sicilian Tragedi, al quale lo scrittore statunitense David Leavitt dedicò un’intera pagina del New York Times. E ora uno dei sequel, Sicilian comedi, potrebbe diventare un progetto cinematografico visto che ne sono stati acquistati i diritti.
Quei libri nascono dalla voglia di mettere insieme le due saghe, quella di Lou Sciortino e quella dei Sicilian Tragedi e dei Sicilian Comedi. Un romanzo, per essere un romanzo, deve avere uno stile e un mondo e in quel caso li ho fatti scontrare. Sulla vendita dei diritti dalla quale nascerà qualcosa di cinematografico o televisivo, devo dire che è stato grazie a un gruppo di amici composto da Nello Correale, che dirige il Festival del Cinema di Frontiera di Marzamemi, quello più a sud d’Europa, oltre all’attore Antonio Catania e Gino Sgreva, uno dei più bravi direttori della fotografia italiani. È tanto tempo che parliamo di questo progetto e abbiamo già pensato e scritto a qualcosa di visuale.

Oggi che scrittore è Ottavio Cappellani?
Credo si capirà meglio con il libro che ho in uscita che si intitola Pastorale siciliana. Gli altri romanzi erano tutti metropolitani. Raccontavo le città. Infatti in Lou Sciortino anche la mafia era aristocrazia. Mi sono accorto che la Sicilia non è arretrata, è decaduta prima. Siamo 200 anni avanti a tutti gli altri. Catania è come sarà la Svezia in un prossimo futuro. Siamo ascesi prima all’apice, quindi siamo stati i primi a decadere.

Per cui sarà un romanzo che presenterà la Sicilia sotto una nuova luce?
Chi vede la Sicilia come un luogo regredito non riesce a coglierne la portata apocalittica. Quando cominciai a leggere romanzi distopici, scrissi L’isola prigione. Poi mi resi conto che in Sicilia la post-apocalisse già era in corso. E questo processo si ritrovava in campagna.

Se non sbaglio ti sei anche trasferito in campagna negli ultimi anni.
Mi sono trasferito perché è come se avessi esaurito la città. Così sono andato a stare in campagna in condizioni di eremitaggio. Abito solo, a 9 chilometri da Noto e a 9 chilometri da Rosolini, con diversi animali. E la mia sensazione era giusta. L’umanità intera è in una situazione apocalittica. In Pastorale siciliana, una sorta di Bucoliche di Virgilio ma in forma di thriller, racconto non solo questa situazione della ruralità, ma di come sia falsa l’infatuazione eco-green, o da smart working trasformato in south working. Questa dimensione “umana” dei borghi non è assolutamente vera. Sono luoghi di bestialità e ferocia totale. Non sono abitati da uomini, ma da bestie.

Dopo la pubblicazione saranno contenti di verdersi descritti in questo modo i tuoi conterranei…
Ma qui non c’è nulla di nobile. All’inizio sembra bello, poi conosci le persone e ti rendi conto che dominano l’alcol e la cocaina, le schiene spaccate dal lavoro e i denti marci. Nel secolo scorso si parlava di civilizzazione, di staccarsi dalla natura. Poi si è capito che contro la natura possiamo ben poco, arriva il terremoto e la natura ci rimette al nostro posto. Quindi questo ritorno alla natura è una enorme balla, non vuol dire altro che ritorno alla bestialità. Ma anche qui il potere non muore.

In che modo?
Al potere servono delle “città nei paesi”. È vero che andare in campagna vuol dire sottrarsi a certa burocrazia, alle relazioni sociali, a diversi obblighi e che se non hai soldi coltivi le verdure oppure allevi gli animali. A livello politico è più difficile comprarti con 50 euro per il voto, come succede nelle città siciliane. Ma dall’altro lato il potere si smaschera più facilmente. Essendoci meno raffinatezze rispetto alle metropoli, un candidato sindaco in un piccolo paese è meno affabulatorio e menzognero di quello di una grande città e quindi rivela in modo più evidente le sue finalità.

Ti riferisci, in qualche modo, anche alla mafia dei “colletti bianchi”?
Questa è un’altra menzogna, cioè che si sia infiltrata nello Stato. La mafia nasce dalla rivolta dei campieri tra gli anni ‘40 e ‘50. Era quell’entità che stava in mezzo fra gli aristocratici e i contadini per la custodia dei fondi. Aveva un ruolo di controllo. Quando l’aristocrazia è decaduta, i campieri hanno preso in mano tutto, dicevano al popolo chi votare e diventarono di fatto potere politico.

Quindi quella dell’infiltrazione è una bufala secondo te?
Non è vero che la mafia si è infiltrata fra i “colletti bianchi”. Quando nasce la democrazia la mafia diventa potere politico. Altrimenti non si spiegherebbe che un analfabeta riesca a diventare sindaco. Senza contare i vari assessori alla cultura che, senza nessuna offesa per i mestieri, prima lavoravano come macellai, geometri o idraulici. Anche in questo caso si è perso il rapporto tra forma e funzione. Ma a me la mafia non interessata in quanto mafia, ma come rappresentazione del potere.

Hai mai avuto contatti con la mafia?
Ma certo! Ero compagno di classe di Vincenzo Santapaola, figlio di Nitto Santapaola, che sta scontando vari ergastoli. Andavo ai suoi compleanni, ma nello stesso tempo al mare con Pippo Fava, grande amico di mio padre. Negli anni ‘80 Catania era un delirio. A scuola ero in classe con il figlio del boss e poi facevo il bagno con chi rappresentava l’antimafia.

Crescendo in un ambiente così complesso, almeno all’inizio, è difficile decidere da che parte stare?
Sto per dire bestemmia, ma esiste una differenza tra mafia e politica? La differenza costituzionale è che il potere politico è diviso in legislativo, esecutivo e giudiziario. Quindi, per essere condannato hai diritto a un giusto processo. La mafia, invece, salta questo passaggio. Però ogni Stato è fondato sulla difesa dei confini e quando entra in guerra il giusto processo va a farsi benedire. È riservato solo ai cittadini, non al nemico. Lo vediamo in Ucraina, ma anche con i migranti. O li respingiamo tutti o li accogliamo tutti. Per cui, ribadisco, c’è una vera differenza fra questi due poteri?

Mi sembra che tu abbia già una risposta.
La mia risposta è no! Perché, comunque, tutti i poteri nascono dall’omicidio.

E torniamo a quello che dicevi sull’aristocrazia.
Quindi da che parte stare? Io me ne sto di lato, né sopra né sotto.

È il modo migliore per uno scrittore di guardare l’ambiente che lo circonda?
Farsi delle domande scomode. Sgalambro scrisse un bellissimo libro, nel periodo in cui nasceva la famosa spinta alla “società civile”. Si intitola Dell’indifferenza in materia di società. E famosa è la sua battuta: «Non solo vogliono la società, per giunta la vogliono civile».

Cosa non ti convince della società civile?
Società e civiltà sono in contrasto. E “società civile” è un ossimoro. Il concetto di animale sociale nasce con i greci, ma ricordo che Gottfried Benn li definì «un geniale popolo di merda».

Tornando alla letteratura, ti sei mai chiesto come mai, nonostante i tuoi libri siano tradotti in tutto il mondo e da case editrici prestigiose, un tuo romanzo potrebbe diventare presto un progetto cinematografico, in Italia non sei mai stato candidato al Premio Strega?
Lì sono gli editori che decidono. Non ci hanno provato neanche con i miei libri più fortunati, nessuno mi ha preso in considerazione. Mi farebbe piacere, ma più che altro dal punto di vista economico, solo che sono molto defilato. Non mi sono mai trasferito a Roma, non frequento colleghi e il mondo editoriale se non per consegnare gli scritti. Sono fuori dagli “Amici della domenica”, forse non ne conosco nessuno. Sono fuori geograficamente, più che culturalmente.

Hai detto che «sono gli editori che decidono». Ormai non si parla più di qualità.
Una volta dicevano che la guerra si faceva per esportare la civiltà, a un certo punto hanno ammesso che ci andavano per il petrolio. Le cazzate hanno le gambe corte. L’aspetto divertente è che tante di queste bugie sono crollate, però si continua ad andare avanti come niente fosse. Il Premio Strega è finto? Non fa nulla, continuano a farlo. Ma la cultura è sempre servita come una grande imbiancata di parete. Ora, però, finalmente sappiamo che la cultura non conta un cazzo.

Che cosa conta oggi?
Contano il potere e la guerra degli uomini contro altri uomini per accaparrarsi delle risorse limitate, dal petrolio ai soldi.

In tutto questo il ruolo degli intellettuali conta qualcosa?
La figura dell’intellettuale è finita quando si è dissolta la figura del consigliere dell’Imperatore. Il mio senso della storia mi viene dalla lontana parentela con Federico II. L’imperatore aveva dei consiglieri per diffondere un’idea in tutto il mondo. Quando l’Impero crolla nascono vari stati e già il re è una forma di aristocrazia decaduta, con i nobilastri della corte. È tutto annacquato. Uno degli ultimi è il cardinale Talleyrand, grande consigliere ben descritto ne La rovina di Kasch di Roberto Calasso. Ma appena l’intellettuale non ha più il ruolo di consigliare, be’, il suo potere decade.

Eppure ci sono intellettuali che, anche oggi, sono molto vicini al potere politico.
Perché Umberto Eco non è mai stato ministro? Ha per caso avuto la funzione di consigliere politico di qualcuno? Non mi pare. Massimo Cacciari è stato sindaco e ora che cosa fa? L’ospite nei talk show. Anche fra gli intellettuali è rimasta solo la forma, però manca la funzione. Con l’avvento dell’era moderna si è dissolto tutto, ma ormai noi siamo immersi nel post-post-moderno.

A un giovane che sogna di diventare scrittore nel post-post-moderno, cosa consiglieresti?
Si scrive al massimo per gli amici, non per missione o perché senti di dover scrivere. Non si possono dare consigli, il vero scrittore non ti chiede mai «continuo su questa strada o no?» oppure «puoi dirmi se sono portato o no?». Scrive e basta. E di solito quando c’è un vero scrittore viene pubblicato. Ancora non so per quanto, tra libri di influencer e tiktoker, tutti volumi buoni solo per i firmacopie. Ma se uno scrittore chiede un consiglio non è uno scrittore. Credo che in futuro finiremo come gli amanti del vinile, la letteratura resterà un oggetto per pochi. Comunque, nel romanzo puoi descrivere l’interiorità dei personaggi, con pagine e pagine pallossissime dove cerchi di spiegarne la personalità, che è un errore di tutti gli esordienti, oppure puoi folgorare il lettore facendo parlare quei personaggi e quindi permettergli di capire tutto attraverso il loro linguaggio.

E Ottavio Cappellani come si immagina in un prossimo futuro?
Intanto non mi sarei mai immaginato in campagna, eppure ci sono finito. Noi siamo fatti per metà di libero arbitrio e per metà di circostanze, per cui non mi immagino neanche tra dieci anni, visto che bisognerebbe aggiungere “se Dio vuole”. E se mi chiedi cosa faccio domani, non lo so davvero.

Vista la tua formazione filosofico-teologica, ti sei mai chiesto come vorresti morire?
Il suicidio è la forma più comoda di morire, ma si muore comunque. Ci suicida la natura. È implicito nell’esistenza. Non parlo di morte, ma di suicidio. Come quando scrivono “è stato suicidato”. Se fosse per noi rimanderemmo fino al collasso del sole, invece siamo già tutti suicidati da Dio!

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