Le primarie del Pd le ha vinte Elly Schlein.
"abbiamo fatto una piccola grande rivoluzione…anche questa volta non ci hanno visto arrivare"…#Schlein #EllySchlein #SchleinSegretaria #PrimariePD pic.twitter.com/JpZcMmXRPL
— Sirio (@siriomerenda) February 26, 2023
In una piovosa giornata di fine febbraio, oltre un milione di persone è andata ai famosi gazebo e ha scelto la nuova segretaria dell’ultimo dei partiti di massa rimasti a presidiare quel che resta della Repubblica italiana. Ha vinto contro il voto degli iscritti (i pochi rimasti), le previsioni, i grandi giornali, le televisioni, l’establishment che vede in ogni cambiamento una minaccia a un ordine che si vorrebbe scolpito nel tempo perché, in fondo, conviene a tutti. A tutti loro. Ha vinto spinta da un entusiasmo reale e abbastanza esteso, sull’onda di temi e proposte che gran parte del gruppo dirigente del Pd non ha mai preso sul serio.
La notte del plebiscito, però, non potrà bastare a risolvere una situazione complicatissima, perché il Pd, nonostante questa inattesa svolta al suo vertice, non è diverso da come lo abbiamo lasciato due settimane fa, quando ha rovinosamente perso una regione che governava (il Lazio) ed è stato asfaltato in una regione in cui la destra ne ha combinate di tutti i colori (la Lombardia). E i discorsi fatti allora restano validi ancora oggi, con la sola (ma non piccola) differenza che a risolvere certe questione ora dovrà pensarci Elena Ethel Schlein.
Se per qualcuno – forse troppo novecentesco – è bizzarro che un’organizzazione lasci scegliere a chiunque chi debba essere a guidarla, questo punto di vista si può ribaltare così: gli iscritti al Partito Democratico non rappresentano più l’area di voto dello stesso Partito Democratico.
Un bel rompicapo: nella storia del Pd la possibilità che il voto popolare potesse divergere da quello interno era bollata come astratta e teorica. Cioè non era mai successo e si riteneva potesse, né dovesse, non succedere mai. E invece è arrivata una trentottenne con tre passaporti a dimostrare che la realtà è più complessa dei buchi dei regolamenti del partito. Sarà una bella scommessa vedere come si comporterà Schlein di fronte a tutto questo. Forse sarebbe il caso che i suoi sostenitori decidano di farla ‘sta benedetta tessera del Pd, perché la rivoluzione in segreteria non è necessariamente una rivoluzione per il partito e può benissimo rivelarsi un’operazione puramente cosmetica: la riverniciatura di una facciata con problemi strutturali. Se nuovo corso dovrà essere, in pratica, questo dovrà avvenire anche nelle sezioni più remote, quelle dove comandano i cacicchi e due o tre capibastone decidono ogni cosa. Spezzare questa catena si può, ma è un lavoro quotidiano che si fa dall’interno: dopo il plebiscito, in pratica, deve arrivare anche il suo opposto, cioè la partecipazione.
L’occasione ci sarebbe, perché il lato forse più interessante della vittoria di Schlein risiede nella sconfitta di chi le si opponeva, ovvero una dirigenza fantasma che non vuole tanto il potere di organizzare il Pd, quanto quello di farlo fallire. Nicola Zingaretti, trionfatore alle primarie del 2019 con numeri molto migliori di quelli di Schlein, è stato rosolato in appena due anni e mezzo. Una lezione da tenere a mente per il futuro.
Questa volta, comunque, lo scenario è diverso: mentre domenica sera i risultati andavano via via consolidandosi, il Twitter liberale ha cominciato a reagire all’unisono. Sintesi: ci sarà bisogno di una grande casa per accogliere tutte le istanze antipopuliste. Traduzione: nel cosiddetto «terzo polo» (in realtà quarto o quinto partito) di spazio ce n’è tanto e se qualcuno nel Pd si sente a disagio per una linea «troppo di sinistra», si può sempre progettare insieme qualcosa di nuovo.
Definire Elly Schlein «troppo di sinistra» è la solita esagerazione liberal: per loro basta dire che le frustate sul posto di lavoro forse sono un po’ troppo per essere considerati come guardiani del museo della Rivoluzione d’Ottobre.
L’altro problema serio di Schlein risiede nella distribuzione dei consensi delle primarie: lei ha vinto nelle grandi città e, in generale, nei centri in cui il Pd va piuttosto bene. Bonaccini ha vinto dove il Pd storicamente più soffre: in provincia, in periferia, al sud. Questo dato può voler dire tutto e può non voler dire niente, e di certo non è una sentenza definitiva, ma la riflessione che il partitone deve necessariamente fare sulla sua geografia comincia ad essere più urgente di quella (pure necessaria) sulla sua storia.
Il rischio grosso che si vede sullo sfondo della vittoria di Schlein, infine, è quello dell’implosione. Il motivo, però, non risiede nel fatto che lei sarebbe «troppo di sinistra» come diranno i suoi detrattori, ma in quello che potrebbe diventare il Partito Democratico: un movimento liquido organizzato da Dario Franceschini. Perché, intendiamoci, i leader contano, ma poi sono le retrovie che vincono le battaglie (se ne accorgerà pure Bonaccini, il quale vedrà tanta gente che fino a ieri lo considerava un genio cominciare a trattarlo come un appestato).
L’ex ministro della Cultura ha benedetto la candidatura di Schlein al congresso in tempi non sospetti, è partito da outsider assoluto e adesso si appresta a riprendersi tutto quello che gli spetta. Ovvero posti e posizioni organizzative. Il tutto insieme alla rediviva ditta di Pierluigi Bersani che pure arriverà a battere cassa dopo anni di esilio. Poi ci sono gli ex zingarettiani, quelli di Andrea Orlando, vari cani sciolti e molto pericolosi di ascendenza democristiana. L’ambientino sarà questo: non basta depurare il Pd dai renziani per renderlo vivibile. La sfida non è solo per Schlein, ma anche per chi l’ha sostenuta: l’antidoto alle antiche pratiche antropofaghe del Pd risiede, come detto sopra, nella partecipazione.
Il resto, sfida a una destra fortissima e mostruosa compresa, verrà dopo.