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Perché è importante non dimenticare l’omicidio razzista di Fermo

Il pomeriggio del 5 luglio 2016 Amedeo Mancini, ultrà della Fermana vicino ad ambienti di estrema destra, uccise con un pugno Emmanuel Chidi Nnamdi, richiedente asilo nigeriano di 36 anni

Foto di Patrizia Cortellessa/Pacific Press/LightRocket via Getty Images

Sono passati sette anni dal pomeriggio del 5 luglio 2016 quando Amedeo Mancini, ultrà della Fermana vicino ad ambienti di estrema destra, uccise con un pugno Emmanuel Chidi Nnamdi, richiedente asilo nigeriano di 36 anni.

“Ucciso in modo preterintenzionale, non per legittima difesa, bensì per motivi razzisti”. Così si espresse la Corte di Cassazione, rigettando l’istanza della difesa di Mancini che aveva chiesto di cancellare l’aggravante di razzismo dalla sentenza di patteggiamento (quattro anni, scontati agli arresti domiciliari con il permesso di allontanarsi otto ore al giorno per lavorare).

Questa vicenda per essere compresa in tutte le sue drammatiche ramificazioni va inserita in un contesto più ampio. Pochi giorni dopo l’omicidio di Emmanuel, lo scrittore Angelo Ferracuti commentò sul manifesto quanto successo a Fermo parlando di “un’intolleranza che è iniziata qui con il pestaggio di due profughi somali, operai calzaturieri, davanti a un bar nell’indifferenza di molti, l’uccisione di due ragazzi kosovari ad opera di un proprietario di 17 fucili, che poi si è suicidato in carcere, la piccola strategia della tensione orchestrata da gruppi di estrema destra contro le parrocchie (quattro attentati in pochi mesi) ree di ospitare profughi politici”.

In un clima del genere gridare “scimmia africana” a una persona – in questo caso Chinyere, la moglie di Emmanuel – diventa una “ragazzata”, come dichiarò il fratello di Amedeo Mancini. “Lui ama scherzare così. Quando vede un ne*ro, gli lancia le noccioline, gioca a fare il verso dell’orango… È successo anche l’altro giorno. È stata solo una ragazzata”.

Nulla di sorprendente se abbandoniamo per un istante la provincia marchigiana e pensiamo che solo poche settimane fa il ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli è stato condannato a 7 mesi, con pena sospesa e non menzione nel casellario giudiziario, per le offese rivolte nel 2013 all’allora ministra dell’Integrazione Cecile Kyenge. Il 13 luglio di quell’anno il dirigente leghista – ai tempi vicepresidente del Senato – definì Kyenge “orango” durante un comizio. A dicembre il reato andrà in prescrizione.

Se avesse subito in silenzio gli insulti razzisti di Mancini oggi Emmanuel avrebbe 43 anni. La stessa età di Frederick Akwasi Adofo, senza dimora originario del Ghana ucciso a botte lo scorso 19 giugno a Pomigliano d’Arco da due sedicenni ora accusati di omicidio volontario aggravato dai futili motivi e crudeltà.

“Questa morte non è una passerella politica”, recitava uno striscione esposto lunedì 3 luglio al funerale di Frederick. Ed è proprio il ruolo delle istituzioni uno degli aspetti più critici evidenziati anche da Kadir Monaco, attivista e operatore sociale di Napoli. “Ci sono due ordini di problema”, spiega Monaco. “Il primo è rappresentato da un governo che fomenta odio e con le sue politiche segregazioniste disumanizza i corpi delle persone ai margini, migranti e senza dimora. Il secondo è l’assenza di politiche sociali nel Sud Italia, soprattutto nei luoghi dove c’è la presenza della camorra. I ragazzi dovrebbero essere intercettati e aiutati con percorsi di contrasto alla dispersione scolastica e non affidati alle mani della criminalità organizzata. Ai senza dimora andrebbe offerta la possibilità di un effettivo reinserimento sociale. Lo stato dovrebbe aiutare una persona vittima di fragilità a restare in vita, non organizzargli il funerale”.

Come sappiamo bene, non siamo tutti uguali nella morte. Si tratta di una differenza odiosa verificabile anche nei casi di Emmanuel e Frederick. Quest’ultimo è stato ricordato con affetto dall’intera comunità di Pomigliano d’Arco e nessun esponente politico ha pensato di prendere le difese dei suoi assassini. Emmanuel non ha ricevuto lo stesso trattamento.

Molte persone considerano l’omicidio di Fermo l’esito di una “rissa”, un evento tragico senza un vero colpevole. C’è chi si è spinto fino a mettere sullo stesso piano assassino e assassinato, definendoli entrambi vittime. Una campagna mediatica e politica – portata avanti per mesi a livello sia locale che nazionale – ha inquinato il dibattito pubblico, gettando ombre sull’unica vittima. Emmanuel Chidi Nnamdi, un fervente cattolico scappato dalle violenze di Boko Haram, è stato ingiustamente accusato di far parte della mafia nigeriana e di aver aggredito Mancini con un paletto segnaletico, nonostante le uniche tracce trovate sull’oggetto fossero quelle del suo assassino.

A Emmanuel non si perdona il fatto che abbia chiesto conto a Mancini dell’insulto rivolto a sua moglie. È inaccettabile che un uomo nero non sappia stare al suo posto. Questa è la terribile lezione di Fermo.

All’ultrà, infatti, la procura riconosce l’attenuante della provocazione “per la ingiusta e illecita reazione aggressiva di Emmanuel all’insulto ricevuto”. La “certosina giustapposizione di pesi e contrappesi” del patteggiamento non sfugge a un osservatore attento come Alessandro Leogrande, scrittore e giornalista scomparso prematuramente a soli quarant’anni. Leogrande in un suo reportage per Internazionale nota come “su questo punto la sentenza sembra far propria la tesi della ‘colpa del nero’, benché sul corpo di Mancini non siano stati riscontrati segni significativi di colluttazione (non ha avuto neanche un giorno di prognosi)”.

Un altro rischio è la retorica autoassolutoria del balordo e del caso isolato. Mancini era solo un ultrà, non il membro di una comunità che non ha mai avuto da ridire sulle sue “ragazzate”. Almeno fino a quando non c’è scappato il morto. I due sedicenni che hanno ucciso Akwasi Adofo appartengono invece per motivi anagrafici alla vituperata categoria dei giovani d’oggi senza valori e allo sbando.

Una semplificazione deresponsabilizzante e falsa, visto che il disprezzo per le persone razzializzate e senza dimora non è una novità, come ha ricordato la scrittrice Igiaba Scego citando l’episodio del cittadino somalo Ahmed Ali Giama bruciato vivo la notte tra il 21 e il 22 maggio del 1979 nel centro di Roma, a pochi passi da piazza Navona. I suoi assassini non sono mai stati assicurati alla giustizia. Quattro giovani sui vent’anni – tre ragazzi e una ragazza – furono condannati a una quindicina di anni, ma vennero poi assolti in appello con formula piena, confermata in Cassazione.

Ahmed Ali Giama scappava da una dittatura militare (quella di Siad Barre), Emmanuel Chidi Nnamdi dal terrorismo di Boko Haram, Frederick Akwasi Adofo era un richiedente protezione internazionale sopravvissuto all’inferno dei lager libici. Tutti e tre hanno trovato la morte qui per mano di nostri connazionali. Non sono gli unici. Un primo passo nella giusta direzione consisterebbe nell’ammettere l’esistenza in Italia di un razzismo che spoglia di qualsiasi diritto, compreso quello alla vita, le persone percepite come corpi estranei.

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