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Quale allucinazione collettiva ha reso possibile la rielezione di Fontana in Lombardia?

Per elaborare una spiegazione convincente ci metteremo anni. Di analisi. E di sconfitte

Foto di Fabrizio Carabelli/SOPA Images/LightRocket via Getty Images)

Alzi la mano chi nella primavera del 2020 avrebbe scommesso un euro sulla riconferma di Attilio Fontana alla presidenza della Regione Lombardia. Le immagini dei carri militari che portavano via i cadaveri delle persone morte di Covid le ricordiamo tutti. Così come ricordiamo bene l’assessore Giulio Gallera e le sue conferenze stampa quotidiane, basi perfette per migliaia di meme, momenti utili a ridere per non piangere.

I più attenti ricorderanno anche il caos degli ospedali Covid di Guido Bertolaso e la necessità – per certi versi assurda – di richiamare a un certo punto Letizia Moratti in qualità di valente amministratrice in grado di rimettere in sesto una situazione oggettivamente sfuggita di mano. Come dimenticare poi la volta che in televisione Fontana sembrava del tutto incapace di indossare una mascherina, prima calandosela malamente sugli occhi e poi spalmandola sulla faccia come gli xenomorfi nei film di Alien.

Nel settembre del 2021 in un rapporto dell’Eurostat i dati messi in fila dimostravano al di là di ogni ragionevole dubbio e contro ogni sorta di obiezione che la Lombardia era stata la prima regione in Europa per numero di morti durante la prima fase della pandemia. E poi decine di inchieste televisive, libri, approfondimenti, documentari: l’intero universo mondo sembrava convinto del fatto che Fontana fosse il politico che più di tutti avrebbe dovuto pagare in termini di consenso lo scotto della sua conclamata malagestione dell’emergenza. E anche i più audaci, quelli che nonostante tutto si ostinavano a difenderne il buon nome, non potevano negare quantomeno una responsabilità oggettiva rispetto al disastro lombardo.

E invece adesso siamo qui a vedere Fontana che trionfa alle regionali, che raccoglie più della maggioranza assoluta dei voti validi espressi, che asfalta il centrosinistra del pur volenteroso Pierfrancesco Majorino, che umilia l’ex sodale Letizia Moratti, ricacciata sotto al 10% e addirittura fuori dal consiglio regionale. Una prova di forza mostruosa, quasi una valanga, Attilio il flagello di dio.
Nelle foto che lo ritraggono al seggio Fontana sembra quasi un clochard: la barba incolta, un giubbotto stazzonato, l’espressione di chi è passato per caso e non sembra aver molto da chiedere alla vita.

Eppure lo sapevamo. I sondaggi non hanno mai messo in dubbio la sua riconferma, forse la colpa è nostra che non ci volevamo credere. Forse se non si è lombardi non si capisce fino in fondo cosa succede da quelle parti e si tende a considerare Milano come se fosse tutto lì: un paradiso liberal in cui milioni di persone ogni giorno attraversano meravigliose piste ciclabili in sella alle loro belle biciclette, in cui si organizza un pride alla settimana, in cui il centrosinistra è così forte e sicuro di sé che può persino candidare Bruno Tabacci l’uninominale e vederlo vincere senza discussione mentre intorno allegrissimi militanti del Pd spargono fiori per le strade. Manuel Agnelli ci aveva avvisato tanti anni fa, però: «Milano non è la verità» E allora forse non vediamo l’altro lato della medaglia – i prezzi ormai proibitivi, gli appartamenti grandi come loculi affittati a prezzi da usura, la mole di pendolari che si muove stremata su una metropolitana peggiore di quella di Roma –, di certo non vediamo il resto di quell’enorme pezzo di terra chiamato Lombardia. Non vediamo Bergamo, non vediamo Brescia, non vediamo Varese. Tantomeno vediamo Lodi, Sondrio o Gallarate.

E lasciamo perdere la costellazione di cittadine in cui tanta gente vive e lavora ma delle quali non riusciamo nemmeno a ricordare i nomi. La Lombardia è la regione più popolosa d’Italia, una delle regioni più densamente abitate d’Europa, oltre che un traino industriale di livello mondiale: sono informazioni che sappiamo tutti, ma che al momento sbagliato rimuoviamo dai nostri pensieri.
Quindi ci ostiniamo a non capire perché un candidato tanto capace come Majorino sia uscito letteralmente tritato da un vecchio leghista universalmente considerato bollito, nonché al centro di un numero ormai considerevole di inchieste giudiziarie (quasi tutte comunque concluse in un nulla di fatto).

La verità, spiegano con molta pazienza i militanti del Pd che non hanno la fortuna di stare a Milano, è che la partita non è mai stata davvero in discussione. Un po’ come in Veneto: devi far finta di crederci che alla fine tu possa vincere, ma alla fine sarai comunque costretto ad arrenderti davanti all’evidenza. Viviamo in tempi liquidi – forse addirittura gassosi – e il corpaccione lombardo che ha sempre votato Lega e Forza Italia adesso vota Fratelli d’Italia perché sono mutati i rapporti di forza interni alla coalizione di centrodestra, ma sempre lì sta. E così, anche quando a votare non ci va nessuno, i pochi che rispondono «presente» alla chiamata delle urne sono per lo più di quella parte lì. E non tradiscono, non cambiano, difendono la posizione come nemmeno i militanti del Pci emiliano ai bei vecchi tempi. Fontana non è un candidato, è un atto di fede: padroni a casa nostra. Come quegli altri in Emilia Romagna e in Toscana.

La vita è contraddittoria, figuriamoci la politica. Tantissimi sono rimasti a casa e non hanno partecipato, la questione riguarda la Lombardia come il resto d’Italia e dovrebbe far venire le vertigini ai leader politici (tutti), oramai incapaci anche di vedere quello che davvero si muove in società. Quindi il finale è sospeso: a Bergamo, la stessa Bergamo in cui tre anni fa i quotidiani locali pubblicavano pagine su pagine di necrologi, Fontana consegue una delle percentuali più alte di questo suo trionfo e di tutti i tempi. Probabilmente, per elaborare una spiegazione convincente ci metteremo anni. Di analisi. E di sconfitte.

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