Quando ricorda suo figlio, Salvatore Attanasio non si scompone. Ha gli occhi un po’ lucidi, ma il tono di voce è pacato e fermo: «pretendiamo la verità» dice a Rolling Stone, e in effetti sulla morte di suo figlio Luca, ambasciatore italiano ucciso nella Repubblica Democratica del Congo insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo il 22 febbraio 2021, restano ancora troppe domande senza risposta.
Quel giorno Attanasio era partito da Goma, capitale della regione del Nord Kivu (all’estremo est del paese, al confine con il Ruanda) per visitare un progetto del Pam, il programma alimentare mondiale delle Nazioni unite; insieme a lui viaggiavano il responsabile della sicurezza del Pam Mansour Rwagaza, un altro responsabile locale, il carabiniere Vittorio Iacovacci, l’autista Mustapha Milambo e Rocco Leone, vicedirettore del Pam nella Repubblica Democratica del Congo.
Secondo le ricostruzioni, un gruppo di guerriglieri – forse appartenenti al Fronte Democratico di Liberazione del Ruanda – ha prima ucciso Milambo e poi cercato di rapire Attanasio e Iacovacci. A questo punto non si capisce cosa sia andato storto: si è parlato di un intervento delle guardie del parco nazionale dove stava passando la missione, ma non è chiaro se queste abbiano aperto il fuoco contro il gruppo paramilitare prima, nel tentativo di fermare il rapimento, o dopo l’uccisione dei due italiani. Il prossimo 18 ottobre ci sarà una sentenza importante: verrà decretato se Rocco Leone, che nel frattempo è stato accusato di omicidio colposo dalla procura di Roma per non aver predisposto le adeguate misure di sicurezza, potrà avvalersi dell’immunità in quanto funzionario ONU. Se il giudice per le udienze preliminari accoglierà la richiesta di Leone, sfumeranno le possibilità di capire cosa davvero è accaduto quel giorno.
«Certamente ci sono troppe anomalie nella ricostruzione di quanto è accaduto. Ad esempio, quello che hanno scritto i giornali appena dopo l’attentato è una dichiarazione presa sul momento di chi oggi è imputato ed accusato di omicidio colposo. Anche la risposta al fuoco delle guardie forestali desta molti dubbi: non si è mai sentito che dei rapitori uccidano i loro ostaggi subito, nel luogo dove è avvenuto il rapimento» spiega Attanasio.
Nel frattempo il Congo sostiene di aver già individuato i responsabili e ha condannato all’ergastolo cinque persone in un processo che di certo non è stato svolto secondo i criteri della giustizia italiana, per dirla con un eufemismo. «Diciamo che la nostra giurisprudenza ha altre regole – continua il padre dell’ambasciatore – tuttora io non sono certo che siano stati loro a sparare, perché inizialmente si sono autoaccusati, poi hanno ritrattato tutto in sede processuale sostenendo che la confessione gli era stata estorta sotto tortura. Sta di fatto che il Congo aveva chiesto per queste cinque persone la pena di morte, ma noi familiari abbiamo organizzato una raccolta firme per evitare di aggiungere morti ad altri morti: la prima firmataria è stata mia nuora, la moglie di Luca, Zakia Seddiki Attanasio. Anche grazie all’intervento dello Stato italiano si è riusciti ad evitare la pena capitale: sarebbe stato contrario ai principi che guidavano mio figlio».
Anche la giustizia italiana ha avviato le sue indagini, concentrandosi su uno degli interrogativi più inquietanti che rimangono da tutta questa storia, perché il nostro ambasciatore non è stato adeguatamente protetto? «Quando avremo la risposta a questa domanda, avremo più chiarezza – dice Salvatore, che ricorda come suo figlio non fosse mai stato approssimativo nell’organizzare le missioni di sua competenza – Una volta all’anno andava a trovare i missionari di Bukavu e, come hanno confermato anche loro, il piazzale della loro missione era pieno di caschi blu e militari congolesi. Questo avveniva quando le missioni erano pianificate da Luca, mentre quella volta era ospite dell’onu, erano loro a doversi occupare della sua sicurezza».
Anche le ricerche della giustizia italiana, però, fin dal loro inizio, hanno dovuto fare i conti con grossi limiti: i carabinieri del Ros giunti sul posto non hanno potuto vedere il luogo dell’attentato “per motivi di sicurezza”, quindi non hanno potuto fare riscontri precisi sui mezzi coinvolti nello scontro a fuoco. L’altro limite al raggiungimento della verità in questa inchiesta è tutta responsabilità dello Stato italiano che non si è costituito parte civile al processo in atto in questi giorni. Un’assenza molto grave, che ha sconcertato la famiglia e gli amici delle vittime «Ci ha amareggiato che lo stato non si sia riconosciuto parte civile, eravamo convinti che fosse al nostro fianco. Pretendiamo che spieghi il motivo di questa scelta, anche se a noi pare ingiustificata: lui era un ambasciatore in missione, in pieno esercizio delle sue funzioni. Proprio lo Stato, il suo datore di lavoro è inspiegabilmente fuggito dal processo: per me è difficile da accettare, spero che qualcuno ci dia una spiegazione razionale. Come si fa a dire “vogliamo la verità” se poi di fronte ad un atto concreto l’Italia non c’è?».
Certo questa storia piena di buchi e omissioni, anche da parte dello Stato italiano, non può che generare più di qualche sospetto: sono in molti, tra cui Salvatore e diversi membri dell’associazione “Amici di Luca Attanasio”, a sostenere che non si sia trattato di un incidente.