Passano gli anni, ma la scuola continua a rimanere il laboratorio di sperimentazione politica per definizione: negli ultimi giorni, le iniziative intraprese da due licei veneti hanno riassunto al meglio la dicotomia dominante nel mondo dell’istruzione. Una frattura che vede contrapposti due diversi orientamenti e due distinte concezioni del ruolo che la formazione dovrebbe avere all’interno della società.
Da un lato quella portata avanti dal liceo scientifico Giordano Bruno di Mestre, che ha scelto di eliminare i voti per salvaguardare la salute mentale dei suoi studenti e tutelarli da livelli di stress reputati eccessivi. Nell’istituto, per un intero quadrimestre, la classica valutazione in decimi sarà sostituita da due diciture differenti: “risultati raggiunti” scritto in verde o “preparazione da migliorare” scritto in rosso.
Una scelta che alcuni hanno definito progressista, perché tiene conto dell’attualità, delle nuove sensibilità che hanno preso piede tra i banchi di scuola e dei troppi episodi di cronaca che, nell’ultimo anno, hanno raccontato una realtà che ha sicuramente del drammatico, scandita dalla pressione e dall’ansia performativa che regnano sovrane nei luoghi di istruzione, dai ritratti di laureati prodigio pubblicati sui giornali e venduti come esempi virtuosi e da seguire, dall’assenza di strumenti di supporto e prevenzione sul benessere psicologico degli alunni e dai (troppi) suicidi che, sempre più spesso, affollano le prime pagine dei giornali. Di contro, però, c’è anche chi critica questa impostazione e ne rivela le possibili criticità, su tutte una: se questa sperimentazione e dovesse trasformarsi in una consuetudine, potrebbe disabituare del tutto gli studenti alle frustrazioni che, giocoforza, dovranno affrontare nella vita (un punto, a parere di chi scrive, giustissimo), facendoli crescere in un microcosmo ovattato che non ha nulla a che vedere col mondo là fuori.
Dall’altro lato, la decisione dell’Istituto superiore Scalcerle di Padova esprime una tendenza radicalmente antitetica: la scuola ha infatti introdotto un bonus da 100 euro per gli studenti che riescono a raggiungere la media del 9 e previsto una serie di benefit (viaggi di istruzione all’estero) per chi porta a casa almeno la media dell’8.
In questa visione – che riflette la particolare concezione di meritocrazia propagandata dal governo Meloni – l’impostazione che si vuole seguire è simile a quella di un’azienda, dato che il premio che si concede agli studenti è assimilabile, senza troppe distinzioni, a un premio di produzione. Una visione che la maggior parte degli studenti rigetta del tutto: «È un fatto grave, che si inserisce in maniera del tutto scomposta nel quarto a tinte fosche che dipingono da mesi esperti e organi di stampa fatto di angosce da prestazione nei luoghi di istruzione, di studenti che si tolgono la vita schiacciati da un sistema che pretende la competizione a tutti i costi e in questo caso al costo di 100 euro con col tuo compagno di banco», ha scritto in un comunicato Paolo Notarnicola, coordinatore Nazionale della Rete degli Studenti Medi.
L’immagine dei due compagni di banco pronti a duellare fino all’ultimo capitolo pur di portare a casa una mancetta di poche decine di euro, con tutto il carico di tensioni, inimicizie e competitività che ne consegue, è terrificante ma efficace: che tipo di cultura vogliamo lasciare in eredità agli studenti? Davvero l’obiettivo ultimo della scuola deve essere unicamente quello di insegnare a performare meglio degli altri? E, soprattutto, che chi ottiene di meno vale di meno?
Eppure, questa sembrerebbe essere l’impostazione gradita al governo, che fin dal suo insediamento, lo scorso dicembre, ha fatto di tutto per rendere chiaro il messaggio. Un esempio su tutti? L’emendamento alla legge finanziaria che ha modificato il Bonus Cultura destinato ai diciottenni. Non solo sono stati ridotti i fondi da 230 a 190 milioni, ma il bonus sarà sdoppiato, a partire dal 2024, in una Carta della cultura e una Carta del merito, cumulabili. La prima è destinata agli studenti e alle studentesse che provengono da famiglie con un Isee fino a 35mila euro; la seconda – come ha spiegato il ministro alla Cultura Gennaro Sangiuliano – è per «tutti i giovani, a prescindere dal reddito familiare, che raggiungeranno il massimo dei voti alla maturità, con l’evidente scopo di premiare il merito e l’impegno negli studi».
Ora: è chiaro che entrambe le posizioni sono traballanti, perché riflettono due tipi di fondamentalismo differenti. Non si può far crescere uno studente nell’ovatta, pretendendo di astrarlo completamente dal concetto di valutazione: prima o dopo, avrà a che fare con i richiami del responsabile, con le parole non proprio lusinghiere dei colleghi, con quella tragedia umana che anima gli uffici fatta di combriccole, esclusioni, pettegolezzi e mancanza assoluta di sensibilità che ala fine della fiera è la cifra distintiva della maggior parte degli ambienti di lavoro. Alienarlo da questa realtà significa in ultima istanza volergli del male, perché bisogna sviluppare quegli anticorpi indispensabili per resistere al primo bagno di realismo post maturità: funziona così, purtroppo, prima o poi la crisi arriva.
D’altro canto, non si può neppure trasformare la scuola nel paradiso del darwinismo sociale, insegnare ai cittadini del domani che l’unico obiettivo della formazione debba essere quello di eccellere e diventare il mega direttore galattico del domani, magari svilendo tutte le potenzialità latenti di cui studenti con medie non proprio da secchione potrebbero disporre (pensateci: i vostri compagni di classe usciti con il massimo dei voti dalle superiori sono dei geni? I miei, personalmente, no). Il tuo vicino di banco illetterato potrebbe diventare un architetto di tutto rispetto, un atleta, un pittore, un matematico, un ingegnere e chi più ne ha più ne metta: la realtà numerica delle pagelle conta il giusto, ossia quasi niente.
Insomma: forse dovremmo salvare la scuola dai nostri integralismi.