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Sessismo, machismo, mobbing: la “Chat degli 80” raccontata da chi c’era

Da giorni il mondo delle agenzie di Milano è in stato di agitazione: ieri We Are Social ha avviato un'investigazione per fare luce su una vecchia chat in cui i dipendenti maschi davano voti alle colleghe in base all'aspetto fisico. Abbiamo parlato con alcune persone a conoscenza dei fatti: «Chi partecipava lo faceva per tre ragioni: elogiare le ragazze con battute sessiste, fare body shaming e, soprattutto, conformarsi al cameratismo di gruppo»

Ieri Ottavio Nava, co-founder dell’agenzia creativa We Are Social, ha comunicato l’autosospensione dell’azienda dallo status di associata UNA (Aziende Della Comunicazione Unite) e l’avvio di un’indagine, da affidare a un ente terzo e imparziale, che possa fare chiarezza sulla chiacchieratissima questione della “Chat degli 80” e delle presunte molestie verbali cui sarebbero state sottoposte alcune dipendenti dell’agenzia. Rispondendo alle nostre domande, Nava ha spiegato le motivazioni alla base di questa decisione: «La trasparenza è da sempre un valore fondamentale per We Are Social. L’affidamento dell’indagine a un terzo indipendente ci consente di garantire un controllo equo, imparziale e trasparente, con l’ascolto di tutte le parti coinvolte e una rigorosa verifica dei fatti».

Chi è avvezzo alle tematiche della comunicazione sa già di cosa stiamo parlando; per tutti gli altri, ecco un breve riepilogo: ad agire da catalizzatore di un possibile momento MeToo nel microcosmo della comunicazione italiana è stata un’intervista che il pubblicitario milanese Massimo Guastini ha concesso a Monica Rossi – pseudonimo di un utente uomo particolarmente addentrato nelle dinamiche dell’editoria.

I colloqui che Rossi pubblica periodicamente sul proprio profilo Facebook si trasformano spesso in un caso mediatico, ma la chiacchierata con Guastini – che ha ricoperto per due mandati la carica di presidente dell’Art Directors Club Italiano – ha catalizzato più attenzione del solito.

Il creativo ha infatti parlato apertamente di molestie nel mondo pubblicitario, facendo nomi e cognomi (in particolare quello di Pasquale Diaferia, autore tra le altre cose del celebre claim “Don’t touch my Breil”) e menzionando la chat di una grande agenzia di comunicazione in cui, cito testualmente, «diversi uomini catalogavano e davano i voti chi al culo, chi alle tette, chi alle gambe di queste giovani stagiste che potevano essere le loro figlie».

La questione non è nuova: nel gennaio 2020, il podcast Freegida aveva raccontato l’esistenza di questa chat nella quinta puntata, È solo un’altra storia di molestie (potete ascoltarla qui).

Un giorno dopo l’intervista, il nome di questa grande agenzia è venuto fuori per testimonianza diretta del CEO di We Are Social, Gabriele Cucinella, che commentando un post pubblicato da Guastini su Facebook ha riconosciuto pubblicamente l’esistenza della chat e parlato dei provvedimenti che, a sua detta, l’azienda avrebbe intrapreso per far cessare quei comportamenti.

Dal giorno successivo all’intervista di Guastini abbiamo provato a contattare qualche persona a conoscenza dei fatti per ottenere un quadro più preciso della situazione. Uno di loro è Luca (nome di fantasia). «Partecipavo anch’io alla famosa “chat degli ottanta”, e per qualche mese sono stato anche complice di queste dinamiche», racconta a Rolling Stone Italia. «Posso confermarti che tutto quello che è stato detto e scritto negli ultimi giorni è assolutamente vero e attendibile. Potrei raccontarti qualsiasi cosa, anche l’identità di colei che ha vinto il torneo per il “culo più bello”, ma per ora decido di tenermelo per me». Ma come funzionavano queste “competizioni”? «Immaginati una specie di “Coppa del mondo” – spiega Luca – in cui le due stagiste della situazione, per comodità di analisi assumiamo “Bionda vs Mora”, devono sfidarsi per passare il turno e accedere alla fase successiva. Si proclamava questa sorta di “scontro diretto” in chat e si esprimevano giudizi e pareri su chi meritasse di passare alla fase successive. I parametri di valutazione puoi immaginarteli da solo: chi ha le tette più grosse? E il culo più sodo? Ragionamenti di questo tipo. Ognuno esprimeva la sua preferenza su Skype e, in un certo senso, inseriva il proprio gettone nella boccia. Nel frattempo, qualcuno teneva nota dei progressi del “tabellone” su un apposito file Excel, che funzionava come una specie di almanacco».

Ma cosa accadeva quando a partecipare a questi contest era la compagna di vita di qualcuno degli “Ottanta”, magari anch’essa impiegata in azienda? Semplice: nulla. «Tra camerata ci sono dei codici di condotta: non si può toccare la donna di un altro, un affronto del genere non può essere neppure concepito».

Quando gli chiediamo il meccanismo che portava i dipendenti a prendere parte alla chat, Luca non ha dubbi: «Chi partecipava lo faceva per due ordini di ragioni: elogiare le ragazze con battute sessiste, fare body shaming e, soprattutto, conformarsi a uno spirito di gruppo assurto al rango di norma»

Chi non accettava di sottostare a queste logiche, insomma, veniva socialmente sanzionato o escluso dal gruppo: «Non si tratta soltanto di dinamiche maciste e sessiste, ma di distorsioni che si inseriscono in contesti molto ampi e generali, come il mobbing, le possibili ritorsioni in termini di reputazione e carriera per tutti i “non allineati” e un cameratismo cui bisogna aderire per sentirsi in qualche modo “integrati”. Il meccanismo mentale che si innesca in questi casi è tipo: “Come posso non giocare a un gioco portato avanti tutti quanti, a partire dai miei superiori?».

Sempre secondo quanto riportato da Luca, ai tempi – siamo nel 2017, in epoca pre MeToo – le chat suddivise per genere in azienda erano la prassi: «C’erano anche chat interamente femminili o dedicate alle persone LGBTQ+, ma ti posso assicurare che al loro interno non accadeva assolutamente nulla di paragonabile ai deliri che potevi leggere in quella riservata ai maschietti».

Su Facebook, Cucinella ha scritto che questa dinamica non veniva portata avanti su strumenti di lavoro. La nostra fonte, però, sostiene il contrario: a sua detta, queste comunicazioni avvenivano su Skype, uno strumento che i dipendenti utilizzavano anche per le comunicazioni aziendali e per esigenze molto pratiche – scambiarsi file, copy, brief e documenti da mandare ai clienti. «Spessissimo, per sviare l’attenzione da eventuali occhi femminili, la chat cambiava nome: poteva chiamarsi, a seconda dei casi, “Calcio”, “Finale”, “Fantacalcio” e così via», spiega. «Io sono entrato a farne parte sin da subito, nel primo giorno di lavoro».

Stando a quanto riportato da Luca, le nuove arrivate venivano sottoposte a una specie di “rito di iniziazione”: «Quando una collega iniziava a lavorare in azienda, iniziavano a fioccare commenti: si condividevano link ai suoi profili Instagram, foto in costume, screenshot di ogni tipo. Subito dopo seguivano tutti i commenti del caso. Mi riferisco a perle del calibro di “Che bel culo”, Cche fregna”, “Mannaggia, questa è fidanzata, e ora?”. Atteggiamenti che ti aspetti da 18enni in piena pubertà, non da padri di famiglia o uomini sposati». La “Chat degli ottanta”, insomma, funzionava come una sorta di spazio interclasse: in quel gioco vigeva una perfetta uguaglianza. «Partecipavano tutti, dai team director agli account manager, fino agli account executive, agli editor, ai writer, e all’ultimo degli stagisti».

I comportamenti sessisti descritti da Luca, però, non venivano portati avanti soltanto in chat: «Il vero disagio era ritrovarsi davanti persone di cui, fino a pochi secondi prima, stavi dicendo pesta e corna. La chat era solo la controparte digitale di ciò che avveniva in quell’agenzia: quando una riunione finiva e si rimaneva tra “maschietti”, i commenti sagaci continuavano».

Andava anche di moda affibbiare dei nomignoli alle nuove arrivate: «Ricordo soprannomi di ogni tipo e acronimi particolari, da PDT (“Pomme de terre”, “patata” in francese, nda) a SDM, che a essere onesto non ho mai decodificato. Ogni volta che passava in corridoio il bersaglio di turno, scattava l’adunata: “Sta arrivando PDT, sta arrivando PDT! Guarda che bel culo che ha, guarda com’è vestita bene oggi”, e tutti giù a ridere per non si sa quale motivo».

Quando gli chiedo perché altri ex colleghi stiano rifiutando di denunciare questa situazione, Luca non ha dubbi: «Molti non lo fanno perché hanno avuto a che fare con We Are Social per un breve periodo di tempo, altri perché hanno timore a parlarne all’esterno per paura di ripercussioni sul lavoro e sulla carriera, altri ancora hanno un’esteriorità da “buon padre di famiglia” da difendere. I “Buscetta” del caso, quelli che come me hanno capito la gravità di ciò che facevamo, non mancano, ma non hanno ancora il coraggio di esporsi. Quando a portare avanti un certo tipo di atteggiamento non è lo stagista di 19 anni, ma senior, director e altre personalità importanti dell’azienda, finisci per adeguarti. Non è una giustificazione, ovviamente».

A un certo punto, dall’oggi al domani, la chat si svuota. Iniziano i rumor interni, cominciano a circolare voci, forse qualcuno poteva aver scoperto qualcosa. E infine la damnatio memoriae: di quella chat non si sa più nulla, scompare dalla memoria storica aziendale.

A raccontarci qualcosa del modo in cui funzionavano le cose in azienda è anche un’ex dipendente, Erica Mattaliano: «Nel 2019 avevo 26 anni e lavoravo in We Are Social. A marzo è stata inviata una mail interna per chiedere se le donne dell’agenzia fossero disponibili a fare una foto di gruppo in occasione della Festa delle donne». Da lì si è creato un piccolo dibattito sul concetto di creatività che l’azienda aveva proposto: «Da un’agenzia del genere ci si aspetterebbe qualcosa di più, così l’ho fatto presente: sono intervenuta per chiedere di organizzare qualche iniziativa rivolta “all’interno”, ho pensato che tante di noi potessero cogliere l’occasione per raccontare almeno un episodio negativo connesso al posto di lavoro».

Da quel momento in poi, la quotidianità lavorativa di Mattaliano è cambiata: «Subito dopo, durante una riunione con i miei responsabili, uno dei capi ha iniziato a urlarmi contro in un modo che ho percepito come parecchio aggressivo e autoritario. Mi ha detto che non avrei dovuto fare quella richiesta, che con quella mail avevo scatenato una serie di reazioni interne e che, in generale, il sessismo rappresentava un argomento molto sensibile per l’azienda, dato che in passato c’erano stati dei precedenti. A un certo punto, alzando ancora di più i toni, mi ha detto che se mi stavo riferendo “alla chat” quello era un argomento ormai chiuso e di cui non volevano si parlasse. Io sono rimasta un po’ interdetta, dato che di questa fantomatica chat non sapevo assolutamente niente e, quindi, non capivo il motivo di tutta quell’aggressività. Ho scoperto tutto dopo la riunione da cui sono uscita in lacrime (davanti a diversi colleghi). Da lì ho chiesto a delle colleghe cosa fosse la chat e mi hanno spiegato a cosa si stesse riferendo: la “Chat degli Ottanta”».

Stando a quanto racconta l’ex dipendente, «Da lì ha avuto inizio un velato mobbing da parte dei miei superiori: la mia percezione è che fossi considerata quella “bacchettona” e questo non fosse in linea con quello che si aspettavano».

Ogni mese era richiesto ai dipendenti un meeting per capire a che punto fosse il processo formativo: «Ci chiedevano di riassumere tutto in una sorta di diario di bordo. Io ho scritto tutto quello che stava succedendo, dal mobbing alle molestie, ma non ho ricevuto ascolto. Che io sappia c’erano anche colleghi con meno esperienza di me che, nello stesso ruolo, avevano un contratto migliore del mio e hanno ottenuto scatti di livello prima di me. Peraltro, dopo la discussione, non si è più parlato di avanzamento di carriera e anzi mi veniva sconsigliato di affrontare l’argomento, perché dal loro punto di vista non ero in condizione di farlo e rischiavo di “bruciarmi l’occasione”».

In generale, stando a quanto riporta Mattaliano, «Organizzare recuperi o ferie era difficilissimo e alle volte mi hanno chiesto il motivo per cui lo stessi chiedendo». Altri atteggiamenti ambigui avevano a che fare con la sfera privata: «Spesso, con un fare che definivano “goliardico”, hackeravano i profili Facebook di tutti, e ci ritrovavamo con simpatici status partoriti da qualcuno dei colleghi o dei capi. Nulla di grave, ma il fatto che il tuo superiore possa concedersi la libertà di prendere il tuo computer di lavoro e aprire il tuo profilo Facebook è una violazione della privacy che non ha nessun senso».

Oltre al mobbing, Mattaliano racconta di essere stata testimone di alcuni atteggiamenti sessisti: «Durante una riunione, dei colleghi mi hanno detto che non avevano ascoltato niente della mia esposizione perché “avevo la gonna troppo corta”; il tono secondo loro era ironico, ma non l’ho vissuta bene. L’altro ricordo riguarda un evento iniziale (una festa in piscina, nda) quando altri colleghi hanno iniziato a dire che finalmente era arrivato il “momento delle votazioni”, iniziando a commentare i fondoschiena delle ragazze»

Anche Francesca (nome di fantasia) ci ha raccontato di diverse violazioni dei propri diritti di lavoratrice: «La giornata media lavorativa durava fino alle 20, ma sostanzialmente si andava parecchio oltre. Chiedere un giorno di ferie o di malattia, chiedere di recuperare delle ore in più o il pagamento di uno straordinario, erano pratiche fortemente sconsigliate. Le consideravano una specie di affronto, arrivavano a colpevolizzarti per i progetti che stavi lasciando indietro e per i danni che la tua assenza avrebbe arrecato all’intero team. Se sollevavi il problema delle troppe ore svolte, poi, i tuoi superiori ti etichettavano come una specie di scansafatiche, ti ricordavano che alla loro età lavorare fino alle quattro di notte era perfettamente normale e che quindi lamentarsi poteva giocare soltanto a tuo sfavore».

La vita aziendale, racconta ancora Francesca, finiva per intaccare anche lo spazio del tempo libero: «Venivano organizzati eventi a cui bisognava partecipare. Se rifiutavi, dovevi spiegare il perché o comunque trovare una giustificazione. L’obiettivo era integrare tutti i dipendenti in questa dinamica».

Francesca si dice anche scettica nei confronti di alcune liturgie che, al tempo, vigevano in We Are Social: «Venivano organizzati incontri individuali che, in teoria, dovevano servire a comprendere i progressi dello stagista di turno, ma di fatto erano assolutamente inutili: nessuno aveva informazioni su di te, nessuno aveva la minima idea dei progetti che stavi seguendo, niente di niente. Oblio totale».

Le sue lamentele, però, hanno iniziato presto a dare fastidio ai piani alti: «Ho sempre avuto una coscienza sindacale fortissima, in famiglia mi hanno insegnato che determinati diritti non sono negoziabili. Di conseguenza, quando mi veniva richiesto di fare qualcosa che esulava dai miei oneri contrattuali, rifiutavo: per i valori con cui sono cresciuta era tutto perfettamente normale; allo stesso modo, se notavo dei comportamenti poco professionali tendevo a farlo presente. In azienda venivo percepita come un’anomalia di sistema»

Alla fine del periodo di stage, Francesca voleva notizie sulla possibilità di un’assunzione. Di risposte, però, neppure l’ombra: «Dopo la fine dei primi sei mesi, hanno deciso di rinnovare il contratto di stage per ulteriori quattro mensilità. Ho provato a chiedere spiegazioni: mi era sempre stato detto che lavoravo benissimo, che il mio contributo era importante, e quindi volevo venire a conoscenza dei motivi della mia mancata assunzione».

È seguito un periodo di grande ambiguità: «Hanno provato a tranquillizzarmi in ogni modo: dicevano che non dovevo preoccuparmi, che in agenzia queste cose funzionano così, che nessuno veniva assunto dopo il primo periodo di stage. Nel frattempo mi veniva chiesto di non denunciare alcuni atteggiamenti, di fare meno rumore, ed è iniziato il mobbing: hanno iniziato ad assottigliarmi i progetti, a farmi storie su qualsiasi cosa, addirittura sulla mia abitudine di usufruire dei divanetti che, in teoria, erano messi a disposizione dei dipendenti: questa cosa non era ben vista dai capi».

A un certo punto, Francesca decide di chiedere spiegazioni ai suoi responsabili, per comprendere le motivazioni del demansionamento: «Ne hanno dette talmente tante che ho perso il conto: prima che arrivavo in ritardo, cosa assolutamente non vera, che il mio non era un problema di competenza, ma di poca affinità con il “sissignore”, per così dire: facevo troppe domande, avevo troppo spirito critico, ero troppo irrispettosa dei ruoli, e quindi non ero adatta per lavorare in agenzia, perché la comunicazione è un mondo fatto per gli “squali in camicia”».

La visione che emerge dai racconti delle persone che abbiamo sentito suggerisce che il sessismo rappresentava una propaggine di una problematica più ampia. In particolare, questa la lettura di Mattaliano: «Penso che siano persone cresciute in una cultura che non ha favorito uno sviluppo emotivo su questi argomenti: non avevano idea di ciò che stavano facendo, non c’era un’intenzionalità nel fare del male. Dal loro punto di vista era tutto perfettamente normale. Non è solo una questione di genere: sembrava che per loro i lavoratori fossero delle entità senza diritti. Non hai diritto a chiedere il pagamento degli straordinari, a staccare dall’ufficio nell’orario previsto e a non partecipare alle feste aziendali. Non solo: se tocchi questi argomenti vieni percepito come un elemento negativo, che in qualche modo crea problemi».

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