«Se mi trovo di fronte dei pinguini che sono entrati da tre mesi nel Pd e parlano come statisti, mi innervosisco. È gente priva di un prerequisito fondamentale per chi fa politica, la buona educazione. In alcuni casi si aggiunge la totale stupidità. Bisogna rispettare una persona più anziana, il suo lavoro e i suoi sacrifici». E poi l’elenco di insulti verso i compagni di partito: cafoni, ipocriti, dementi, opportunisti, tristi, miserabili, presuntuosi, anime morte e pipì. È il solito show di Vincenzo De Luca, un classico che va avanti, per inerzia, da più di un decennio.
Il governatore campano ha nuovamente attaccato la dirigenza dem, in particolare Elly Schlein con la quale è entrato in rotta dal momento in cui quest’ultima è stata eletta segretaria lo scorso marzo. Alla base di questo ennesimo scontro con i vertici nazionali c’è il limite di due mandati – «una grande palla inventata dal Pd per attaccare De Luca», dice il presidente parlando di sé in terza persona – regola interna che gli impedirebbe di candidarsi alla guida della regione per la terza volta di fila.
«C’è un mio collega», dice De Luca riferendosi al leghista Luca Zaia, «che sta placidamente conducendo il suo terzo mandato in Veneto senza che il Pd o nessun altro abbia avuto niente da dire». E poi rincara la dose contro i capi del centrosinistra: «Al Nazareno c’è gente che ha tre, quattro, cinque, sei, sette mandati e non si dice niente [… ] Pure Elena Schlein (il rifiuto del nome Elly è già un classico del repertorio deluchiano, n.d.r.) è stata eletta al Parlamento europeo, alla regione Emilia-Romagna e al Parlamento nazionale».
Un’arringa che dimostra ancora una volta come l’imitazione di Maurizio Crozza sia inutile di fronte all’originale. Questo sfogo è stato pronunciato durante la presentazione del nuovo libro di Vincenzo De Luca: un manifesto politico dal titolo Nonostante il Pd.
Un nome, un programma. La verve deluchiana riesce a rendere pop quella che sembra una normale bega di partito ed è così che l’ultimo atto del conflitto con Schlein entra di diritto nel pantheon del governatore assieme i più recenti tormentoni come la predica sui ragazzi tatuati e il lanciafiamme del periodo pandemico, poca roba in confronto ai classici registrati quando il nostro era ancora sindaco di Salerno: la crociata contro i cafoni, la campagna per la raccolta differenziata – con annessa umiliazione pubblica dei trasgressori – e lo sproloquio contro i graffiti, in particolare contro «l’imbecille» autore dell’immediato cult «frullino sei il mio battito d’ali».
Vincenzo De Luca è il mattatore della politica italiana e gode di questo ruolo che nessun tentativo di rivoluzione interna al Partito Democratico, dal riformismo renziano di quasi dieci anni fa alla ricercata svolta woke della nuova segretaria, può strappargli. Lui resta lì e ribadisce il concetto con un pizzino ai capi: «Io nel Pd sono a casa mia, ci sto benissimo, sono loro che se ne devono andare».
Di fronte le rivendicazioni della Repubblica autonoma deluchiana, la dirigenza nazionale borbotta, ma non può fare di più perché ha bisogno della scheggia impazzita campana. Il contrasto tra De Luca e il Pd non nasce con i proclami retorici di Elly Schlein perché il presidentissimo non ha mai voluto seguire l’indirizzo nazionale dei dem: se il partito in campagna elettorale batte sul tema dei porti aperti, De Luca invoca strette sull’immigrazione clandestina, se il Pd critica l’atteggiamento securitario della destra, De Luca si guadagna il soprannome di Sceriffo premendo sull’ordine pubblico e così via dicendo fino ad allargare l’abisso che separa i due mondi, quello dei capi democratici e il regno di Vincenzo De Luca.
Nulla di fantascientifico, è la differenza tra programma di schieramento e amministrazione locale, ma il presidente della Regione Campania trasforma la consuetudine in messinscena per smarcarsi da un partito (o da un governo) che alle volte può correre il rischio di risultare impopolare agli occhi di una fetta appetibile di elettorato. Rischio che De Luca non può permettersi. Questo scontro plateale con il governatore viene tollerato dai vertici del Pd per un fattore non trascurabile: Vincenzo De Luca è una macchina macina-voti alla quale non si può rinunciare, come dimostrato dalle percentuali bulgare che è riuscito ad ottenere in Campania negli ultimi trent’anni (alle ultime elezioni regionali arriva primo con quasi il 70% delle preferenze).
Elly Schlein paga l’atteggiamento ingenuo dell’attivista, la sua narrazione è quella dell’underdog arrivato ai vertici di un partito che crede di poter cambiare senza tenere conto degli equilibri interni e della sua storia. Peccato che le cose siano sempre più complesse di quanto appaiano su Twitter ed è così che dietro la tentazione di silurare il caotico De Luca si presentano le conseguenze più temibili: il possibile flop alle europee del 2024 e il pericolo di perdere il feudo campano dopo decenni di dominio Pd. La sfida tra il purismo ideologico della segreteria nazionale e l’istrionismo deluchiano forse andrà avanti in eterno, ma alla fine si troverà una soluzione, anche la più cinica se necessario, perché su questo compromesso si regge l’intero centrosinistra italiano.