La campagna elettorale è entrata nel vivo: mentre, a destra, l’obiettivo principale è quello di fare incetta di voti provando a resuscitare tematiche che, complice la pandemia, erano state riposte nel dimenticatoio (intransigenza sull’immigrazione, enfasi sulla necessità di proteggere la famiglia tradizionale) a sinistra (o meglio, in quello spazio eterogeneo che comprende tutti i partiti che provano a presentarsi come un’alternativa alla coalizione di centrodestra) la comunicazione è iper frammentata.
Il dibattito è interamente catalizzato dai retroscena relativi alleanze, principalmente per avere qualche speranza di imposizione nei collegi uninominali, dato che il Rosatellum Bis, la legge elettorale che verrà adottata per la distribuzione dei seggi, incentiva la formazione di coalizioni. Ad esempio, oggi i principali quotidiani nostrani sono in fibrillante attesa della decisione del leader di Azione, Carlo Calenda, che dovrà scegliere tra la possibilità di apparentarsi con il Partito Democratico e la costituzione di un “terzo polo” liberale, che lo vedrebbe avvicinarsi a Renzi e ad Italia Viva.
La differenza è tutta qui: come accaduto spessissimo negli ultimi anni, mentre gli equilibri della coalizione di centrodestra sono già ben definiti (il “candidato premier” sarà il leader del partito che prenderà più voti all’interno dello schieramento, verosimilmente Giorgia Meloni), nell’altra individuare un punto di equilibrio è difficile, soprattutto a causa di alcune fratture inconciliabili: la possibilità di ammettere il Movimento 5 Stelle nell’alleanza (che trova la netta contrarietà di Calenda), la volontà di abbandonare il gas come combustibile di transizione per puntare subito sulle rinnovabili e accelerare il processo di decarbonizzazione (anche in questo caso, il leader di Azione non sembra disposto a concedere sconti di alcun tipo) e, soprattutto, il tema più delicato in assoluto: quel dardo avvelenato chiamato “tasse”.
Non a caso, nelle ultime ore, il segretario del Pd Enrico Letta è finito al centro di una dura polemica per aver rispolverato un’idea che aveva presentato più di un anno fa: creare una “dote” di 10mila euro da destinare ai 18enni dei ceti medio-bassi – la “Generazione Covid”, come l’ha definita lo stesso Letta. Un tesoretto da ripartire sulla base dell’Isee e spendibile soltanto in determinati modi: in istruzione e formazione, lavoro e imprenditoria, casa e alloggio. Per finanziare questa misura (che ricalca un’idea di Anthony Atkinson rilanciata dal Forum Disuguaglianze e Diversità) si vorrebbe portare al 20% l’aliquota dell’imposta di successione per le eredità superiori ai 5 milioni di euro – che graverebbe soltanto sulla parte eccedente questa soglia. «L’altra volta quando ne parlai tutti cominciarono a dire “ah, si toccano le successioni!“, ma è giusto che chi ha un patrimonio plurimilionario lasci qualcosa alla società e se quel qualcosa viene ridato ai giovani, che oggi sono attanagliati dalla precarietà, credo sia il senso di generazioni che si aiutano», ha spiegato Letta, incassando l’immediata reazione di tutti gli altri schieramenti politici. «Chi sceglie il Pd sceglie più tasse, chi sceglie la Lega sceglie la Flat Tax al 15% e la Pace Fiscale. Chi non sceglie, poi non si lamenti», ha scritto Matteo Salvini, ponendosi sulla stessa linea di Giorgia Meloni, secondo cui «Il 25 settembre gli italiani potranno scegliere: votare il Pd che vuole più tasse e colpire i patrimoni, oppure votare Fratelli d’Italia che non vuole più tasse e che si batterà per tutelare chi produce ricchezza e crea lavoro».
25 settembre. Chi sceglie il PD sceglie più tasse, chi sceglie la Lega sceglie la Flat Tax al 15% e la Pace Fiscale.
Chi non sceglie, poi non si lamenti.
Buona domenica Amici! pic.twitter.com/1bELhsLP7k— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) July 31, 2022
Anche Matteo Renzi, noto oppositore dell’iniziativa, ha colto l’occasione per attaccare il Pd: «Aumentare la tassa di successione è folle, paghiamo tante tasse, possiamo almeno morire gratis?». E poi ci sono state le alzate di scudi di Calenda e Conte, diversissimi ma compatti nella demonizzazione di una patrimoniale che avrebbe agito sul fronte della giustizia intergenerazionale e che, altrove, rappresenta la normalità delle cose da diversi anni. Se confrontata con quella degli agli altri paesi europei, l’imposta di successione nostrana – che in Italia non tocca i patrimoni inferiori al milione di euro – è bassissima: il 4% del nostro paese è impietoso se rapportato al 30% della Germania, al 34% della Spagna o al 45% della Francia. La situazione è simile anche al di fuori del nostro continente: solo per fare un esempio, la famiglia di Lee Kun-hee, presidente della Samsung deceduto nell’ottobre del 2020 , verserà al governo coreano 11 miliardi di dollari di imposte ereditarie. Si tratterebbe di una misura assolutamente razionale; tassare l’1% più ricco al fine di redistribuire i proventi ai giovani delle fasce più povere, per metterli nelle condizioni di emanciparsi dalle loro famiglie e avere un margine, per quanto minimo, di autonomia decisionale sul loro destino; peraltro, la misura non verrebbe finanziata a debito – come molti dei prestiti che il nostro Paese sta chiedendo in questo periodo – e, quindi, non finirebbe per incidere in negativo sulle generazioni che hanno sofferto maggiormente a causa della crisi e del biennio pandemico.
Eppure, ogni volta che questa idea viene chiamata in causa, innesca istantaneamente un clima da caccia alle streghe: perché? C’entrano sicuramente alcune caratteristiche strutturali dell’economia domestica (in Italia il 75,2% delle famiglie, tre su quattro, risiede in una casa di proprietà: una realtà che rende sconveniente parlare di tassazione dei patrimoni, anche quando, come nei piani di Letta, il contributo verrebbe richiesto a una minoranza ristrettissima e privilegiatissima), ma anche un banale dato di realtà: in un Paese vecchio e che continua a invecchiare incessantemente, provare ad aiutare i giovani non paga.
Lo confermano anche le più recenti rilevazioni Istat: entro il 2070 il nostro Paese avrà una popolazione ridotta, con tanti anziani e con famiglie meno numerose. Entro quel termine, l’Italia avrà perso 12,1 milioni di abitanti e l’età media sarà di 50,7 anni contro gli attuali 45,7. In un contesto del genere, parlare di contributi ai giovani, peraltro in piena campagna elettorale, rappresenta un vero e proprio suicidio politico: regala agli avversari un terreno polemico di sicura presa sugli elettori, una possibilità in più per puntare il dito contro quella “sinistra che vuole alzare le tasse” a ogni costo.
In settimane cruciali come queste, si può parlare di tasse soltanto sbandierando la promessa di abbassarle: diversamente, meglio non parlarne affatto e procrastinare ogni intervento in un secondo momento, magari arrivando al governo. È questa l’amara verità in un Paese in cui le elezioni le vince chi accontenta i vecchi: dobbiamo fare pace con questo dato di realtà e sperare in tempi migliori.